Una fabbrica di automobili in Francia (foto LaPresse)

L'analisi

Le auto cinesi prodotte in Italia e la possibile reazione di Stellantis

Mario Seminerio

Il nodo automotive. Ecco perché quello del governo Meloni di volere i colossi cinesi a produrre nel nostro paese è un azzardo

Dopo la missione cinese della premier Giorgia Meloni, giunge lo spiffero di aria bollente agostana sulla possibilità che il costruttore automobilistico cinese statale Dongfeng possa insediarsi in Italia, e da qui muovere a esportare verso tutta Europa. Nulla di inedito ma solo la reiterazione di quella che dovrebbe essere la logica conseguenza del memorandum industriale siglato da Meloni con Pechino, in sostituzione politicamente meno imbarazzata e imbarazzante di quello della Via della seta firmato da Conte nel 2019 e dismesso da Meloni, per necessaria realpolitik.
 

Tuttavia, si fa presto a dire auto elettriche cinesi in Italia. Sarebbe un impianto-cacciavite, cioè di puro assemblaggio di moduli prodotti in Cina oppure una vera fabbrica, con operai qualificati? E questi operai, sarebbero reperibili in tempi ragionevoli o alla fine li dovremmo importare dalla Cina? (Seminerio segue a pagina tre) E il sito di produzione dovrebbe essere un greenfield, cioè costruito ex novo e allo stato dell’arte di collegamenti e infrastrutture stradali e logistiche, oppure un brownfield, cioè la ristrutturazione o riconversione di qualcosa già esistente? In questo secondo caso, dove? Un impianto Stellantis ancora attivo, ammesso  che Tavares lo ceda a concorrenti? O un’area dismessa, magari prima di mettere un’inserzione su un sito di compravendite immobiliari?
 

E chi sarebbero gli azionisti dell’operazione? Lo stato italiano prenderebbe una partecipazione diretta o indiretta, a mezzo di propria partecipata? Abbiamo letto la richiesta di Federmeccanica, del tutto legittima e comprensibile, di favorire i produttori italiani di componentistica, che si trovano in affanno causato dalla filiera tedesca del motore termico. Ma, come intuibile, resterebbe da valutare la compatibilità di simili fornitori, che non si improvvisano. Per apparente ironia della sorte, Dongfeng è pure azionista di Stellantis, per l’1,5 per cento, conseguenza della ricapitalizzazione di Psa Peugeot Citroen a cui partecipò nel lontano 2014. Come si vede, la questione ha molte parti mobili, come direbbero gli anglosassoni. Anche per questo motivo il ministro Adolfo Urso si mantiene  cauto, segnalando i tempi non brevi di un processo di tale portata. Al contempo, tuttavia, Urso è impegnato nel presunto braccio di ferro per indurre Stellantis a produrre un milione di veicoli in Italia. Vaste programme, dato che nel primo semestre il gruppo ne ha prodotti da noi solo 300 mila, tra vetture e veicoli commerciali.
 

Ma qui si pone una prima contraddizione: i tempi per una venture italo-cinese sono lunghi ma quelli per trattare con Stellantis sui target di produzione sono brevi, per non dire brevissimi. Il ministro Urso è troppo abile per usare questi spifferi  agostani come leva tattica negoziale verso Stellantis, perché sa che proprio il mismatch di tempi potrebbe offrire a Tavares l’assist per accelerare il disimpegno. E a quel punto sarebbero dolori seri per la nostra produzione industriale di veicoli a motore, che già oggi è alla radice della nostra debolezza manifatturiera.  Vi è poi un altro elemento da tenere presente, a maggior ragione visto che parliamo di un soggetto statale cinese: la Ue. Che si è dotata di un regolamento, il Foreign Subsidy Regulation (Fsr), che consente alla Commissione di contrastare le distorsioni causate al mercato unico da sussidi esteri che possano rappresentare un cavallo di Troia rispetto alle regole della concorrenza. Uno strumento  potente, nelle esclusive mani della Commissione, e che può irrompere nei mercati nazionali. Ben diverso, nei tempi oltre che nei modi, dalle lente investigazioni anti dumping, che producono effetti erga omnes.
 

Molti ostacoli da superare, quindi, e tempi necessariamente lunghi. Siamo già stati apparentemente sedotti e abbandonati mesi addietro, quando si sparse la voce che Stellantis potesse assemblare in Italia le auto elettriche low cost della sua partecipata Leap Motors. Poi, è uscita la notizia che il “balzo” (Leap) sarebbe stato fatto dalla Polonia, e non in Italia. Non è certamente responsabilità di questo esecutivo se l’Italia storicamente non ha ritenuto di creare le condizioni per attrarre investimenti esteri nel settore auto. Ma sarebbe esclusiva responsabilità del governo Meloni un esito infausto, cioè niente cinesi e Stellantis che si disimpegna dalle nostre lande. Perché di tattica e tatticismi si può morire. 

L’articolo è stato pubblicato anche su Phastidio.net

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