UNa bussola
Numeri sulle pensioni contro i catastrofisti demografici
Saremo 4,5 milioni in meno nel 2050. Un dramma? Solo se continuano gli sconti e le decontribuzioni
Le nuove previsioni dell’Istat sul futuro demografico dell’Italia, aggiornate al 2023, hanno gettato nello sconforto tutti quelli che, anziché pensare ai gravi problemi che assillano il nostro paese e cercare di risolverli, preferiscono paventare i rischi legati alla diminuzione della popolazione; è comprensibile per la gran parte dei maggiori “influencer” (politica, media, sindacati, Chiesa e così via), perché affrontare i problemi che ci assillano oggi intanto è complicato e bisogna studiare, poi è anche impopolare: fa perdere voti e consensi; perché farsi del male? Meglio fingere di strapparsi le vesti perché la popolazione italiana diminuisce. Eppure la demografia, a meno di poco auspicabili enormi flussi migratori, è già scritta e “quando piove apri l’ombrello, se no ti bagni”. Oggi siamo circa 58,9 milioni, nel 2030 saremo ancora 58,6 milioni e nel 2050 scenderemo forse a 54,8 milioni. Un dramma? Scenderà anche il numero di persone in età lavorativa che l’Istat considera tra i 15 e i 64 anni, una forchetta ormai obsoleta perché almeno fino a 17 anni si studia e non si può lavorare (ma probabilmente nel 2040 si arriverà a 18 anni come minima età lavorativa), mentre l’età di pensione sarà di 67 anni e circa 3 mesi già dal 2025 salvo deprecabili interventi della politica sempre a caccia di consensi, e nel 2050 l’età della pensione sarà oltre i 71 anni. Sicché il rapporto tra “individui in età lavorativa” e pensionati non sarà così tragico come dice l’Istat.
Aprire l’ombrello significa dotarsi di una “bussola”, un piano per superare con positività e senza paure quella che è la più grande transizione demografica di tutti i tempi e che tocca tutti: in primis i paesi ad alto e medio reddito, ma in prospettiva anche tutti gli altri, tanto che le recenti previsioni delle Nazioni Unite e soprattutto quelle dell’Università di Washington su paesi come Nigeria, Niger e Ciad si sono dimezzate. Certo, non si potrà proseguire con le quote 100 e dintorni volute dal partito di Giorgetti, che è tra i catastrofisti salvo tagliare le pensioni agli onesti; e neppure con i lavori gravosi inventati dall’ex ministro del Pd Giuliano Poletti. E’ bastato risistemare malamente alcune regole in legge di Bilancio per il 2024 per vedere una riduzione del 15 per cento delle richieste di pensione di vecchiaia anticipata; figuratevi che bei risultati avremmo ottenuto con regole fatte meglio. Dice Giorgetti che “il sistema pensionistico italiano è insostenibile in un quadro demografico come quello attuale”. Affermazione grave, più da bar sport che da ministro perché, se fossi un giovane che inizia oggi a lavorare, mi chiederei perché mai devo versare fior di contributi se poi nel giro di vent’anni il sistema crolla; e vi assicuro che sono in molti a chiederselo. Un bell’incentivo per quelli che non vorrebbero versare contributi.
Ma il sistema pensionistico è messo così male? Sicuramente quota 100 e le varie anticipazioni dei governi Conte 1 e 2 non hanno giovato; e così anche le continue decontribuzioni: sconto di 7 punti su poco più di 9 per tutti i lavoratori dipendenti con redditi fino a 15 mila euro, e di 6 punti per quelli fino a 25 mila euro; e poi sconti per il sud, le donne, i disoccupati, le nuove assunzioni e così via. Un costo di quasi 15 miliardi all’anno che in 3 anni fanno 45 miliardi di entrate in meno per l’Inps. Il ministro dovrebbe sapere che nel 2008, con la Finanziaria, il governo trasferiva all’Inps, dopo aver cancellato con il governo Berlusconi 1 nel 1994 su richiesta dell’Unione europea tutti gli sgravi totali al sud che in 25 anni non avevano creato nemmeno un posto di lavoro in più ma tanto debito, meno di 8 miliardi. Nella legge di Bilancio per il 2024, per coprire gli ammanchi contributivi, lo stato ha trasferito all’Inps la stratosferica cifra di 31,55 miliardi; e pensare che solo nel 2011 erano 14 miliardi! E insiste anche per il 2025 sul cuneo contributivo? E’ certo un ottimo sistema per mandare a pezzi l’Inps, ma molto prima del 2050.
Giusto per tranquillizzare i più giovani, il sistema pensionistico composto dalle pensioni vere, cioè sostenute da contributi, sta benone; certo, ballano più di 100 miliardi di spesa assistenziale che “inquina” il sistema ma sul quale nessuno fa niente, nonostante siamo l’unico paese che non dispone di una banca dati dell’assistenza; eppure, si potrebbero risparmiare tanti soldi e indirizzarli meglio a quelli che ne hanno bisogno. Nel 2022 le entrate dalla produzione (lavoratori e aziende) sono state pari a 214 miliardi mentre le uscite al netto dell’Irpef sono ammontate a 164,5 miliardi: quasi 50 miliardi di attivo visto che i 59 miliardi di Irpef restano allo stato e non nelle tasche dei pensionati. E questa Irpef non la pagano tutti i 16,13 milioni di pensionati ma solo 5,5 milioni, cioè chi si sobbarca ben l’85 per cento dell’Irpef, proprio quelli cui il Ministro ha fatto perdere in tre anni oltre il 10 per cento di potere d’acquisto non rivalutando le pensioni all’inflazione. Mentre a quelli che hanno versato poco o nulla (quando si dice “il merito”) le ha profumatamente rivalutate. Oggi le persone in età da lavoro sono 38 milioni ma solo 23,7 (record di tutti i tempi) lavorano, e così siamo gli ultimi in tutte le classifiche. Avevamo 2,1 milioni di poveri assoluti nel 2008 quando spendevamo 73 miliardi per assistenza sociale. Oggi ne spendiamo 164 e i poveri assoluti sono 5,6 milioni e quelli relativi ben 8,6 milioni, ma non troviamo 150 mila lavoratori per agricoltura e turismo. E poi la bussola vorrebbe che le età da pensione venissero collegate alla speranza di vita; che i contratti di lavoro tenessero conto dell’età dei lavoratori se li vogliamo tenere in attività oltre i 65 anni; vorrebbe che il 33 per cento degli over 65 venissero rivalutati e gratificati con un ruolo sociale e con incentivi per trasferire le loro competenze; vorrebbe che l’organizzazione sociale iniziasse a costruire modelli idonei a una società che invecchia modificando l’abitare, la mobilità, i quartieri. Si dovrebbero fare tante cose ma è più facile disperarsi perché nel 2050 saremo 4,5 milioni in meno, così si va in tv e sui giornali.
Alberto Brambilla, autore di “Italia 2045. Una transizione demografica e razionale”