tra Bruxelles e Roma
Patto con l'Ue: l'importanza delle riforme e il ruolo dei corpi intermedi
L’Unione europea non vuole solo il rientro del deficit in sette anni, ma cambiamenti strutturali. Quali?
Pensioni? L’Italia non può permettersi di tornare indietro rispetto alla riforma Fornero. La Flat tax? Non ne parliamo neppure, costa troppo. Il Pnrr? Va realizzato e senza rinvii, ma che cosa si fa dopo il 2026, come sostenere gli investimenti quando finiranno i finanziamenti europei?
Il negoziato con Bruxelles per portare l’Italia fuori dalla procedura d’infrazione e rispettare le nuove regole del Patto di stabilità parte già in salita. Formalmente comincerà solo nella seconda metà del prossimo mese, ma a Roma sono arrivate indiscrezioni, ipotesi concrete, oltre a una gran quantità di messaggi. E’ certo che l’Italia chiederà sette anni per aggiustare i conti. In base alle cifre contenute nel Def (Documento di economia e finanza), bisognerà procedere con un importante e costante riduzione del disavanzo strutturale, cioè senza gli effetti della congiuntura e di crisi improvvise.
L’aggiustamento è di un ammontare pari allo 0,6 per cento del pil l’anno nel primo triennio e allo 0,7 per cento del pil nei quattro anni successivi. Niente stagnate né giri di vite, ma un percorso realistico, presupponendo che il prodotto interno lordo cresca in media dell’un per cento all’anno. Ma comunque per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti si tratta di un “sentiero stretto”, certamente più stretto di quello evocato a suo tempo dal suo predecessore Pier Carlo Padoan.
Il rientro in un arco temporale di sette anni non è la sola novità introdotta dall’Unione europea. Ogni paese infatti dovrà presentare un piano di medio lungo-termine contenente le misure di politica fiscale e le riforme necessarie a renderle sostenibili, con una crescita in linea con il potenziale produttivo e un’inflazione entro il target della Bce del 2 per cento. Affinché il piano sia efficace e non venga rimesso in discussione a ogni cambio di governo, Bruxelles chiede che venga discusso e approvato da un ampio ventaglio di forze non solo politiche, ma anche sociali. Debbono cioè entrare in campo i sindacati, le organizzazioni produttive, insomma i corpi intermedi per far sì che la governabilità sia basata sul consenso e non sull’imperio. Oltre all’allungamento dei tempi e al piano di riforme, è questo il terzo pilastro per usare un’espressione usata (e abusata) a Bruxelles. In un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, Marco Buti e Marcello Messori parlano di “una occasione per l’Italia” e sottolineano l’importanza della strategia di crescita pluriennale “in cui le riforme e gli investimenti servano ad adattare il modello produttivo italiano ai radicali mutamenti del quadro internazionale”. Ma di quali riforme c’è bisogno?
Pensioni e fisco sono due questioni fondamentali. Se ne parla già in questo torrido agosto e circolano le ipotesi più disparate. Si tratta di trovare un punto d’incontro tra le risorse disponibili e le promesse politiche. Se il governo rinviasse il taglio del cuneo fiscale e gli interventi sull’Irpef, risparmierebbe 17 miliardi di euro e sarebbe più facile centrare gli obiettivi, ma non avverrà. La conferma della decontribuzione è una promessa inderogabile per Giorgia Meloni.
La Lega vuole ampliare la Flat tax, Fratelli d’Italia spinge il viceministro Maruziio Leo a tagli di tasse per i redditi oltre 50 mila euro annui. Superare la legge Fornero è un mantra al quale Salvini non rinuncia. Insomma, a ciascuno la sua bandierina. Chi come Buti e Messori guarda al bicchiere mezzo pieno, sottolinea che è possibile aggiustare i conti senza provocare una recessione. Non solo, le riforme richieste dall’Ue possono aprire la strada a un ripensamento dello stato sociale: non si tratta di ridurre, ma di “ricomporre”. Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha ricordato al Meeting di Rimini che spendiamo ogni anno per gli interessi sul debito pubblico più di quel che viene stanziato per l’istruzione. Eppure proprio il capitale umano è la chiave di volta per trasformare e migliorare il modello produttivo. Che cosa ne pensano i sindacati? E la Confindustria? Il presidente Emanuele Orsini non smette di insistere sulla produttività, ma essa non può aumentare se le imprese non diventano più grandi, se non investono, di più e meglio, nell’innovazione tecnologica e se non si mette mano anche alla contrattazione.
L’industria manifatturiera ha tenuto a galla l’Italia, però non può far tutto da sola, c’è bisogno di un profondo mutamento nei servizi laddove ristagna la bassa produttività. Prendiamo il tanto osannato turismo: l’Italia con tutto quello che offre è il terzo, se non il quarto paese turistico in Europa, con la Francia al primo posto. Che cosa ne pensa la Confcommercio? Il presidente Carlo Sangalli ha ricordato all’assemblea della sua organizzazione “il ruolo economico e sociale del commercio, a cominciare da quello di prossimità”, ma ha glissato sulla necessità di renderlo più efficiente aumentando la concorrenza. Mentre la difesa dei balneari è diventata uno spartiacque tra chi sceglie le rendite e non l’innovazione. Anch’essa sarà in agenda nella prossima trattativa con l’Unione europea.