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Bufale e informazione

Economia dell'insulto online

Carlo Alberto Carnevale Maffè

I social media e la legge di Gresham: fake news e commenti aggressivi come la moneta cattiva che scaccia quella buona. Difendersi è possibile: più che con lo stato, con il mercato (dell’attenzione) 

Come la moneta cattiva scaccia quella buona, anche gli insulti e le fake news sui social media sono soggetti alla legge di Gresham: i commenti aggressivi, gli incitamenti all’odio e la diffusione di notizie false – e in generale l’informazione di bassa qualità – scacciano dal mercato dell’attenzione umana i commenti pacati e le notizie del giornalismo professionale e rigoroso. È compito dello stato impedirlo, possibilmente senza trascendere nel paternalismo o, peggio, nell’indebita limitazione della libertà di parola, oppure esiste una possibile soluzione di mercato? Il tuo commento sul tema della moderazione dei contenuti dei social media, argomento lungamente dibattuto e tornato di recente attualità nel dibattito politico e sociale in Europa, nel Regno Unito e negli Statiuniti, merita una ripresa e un’integrazione con una chiave di lettura di natura economica.

Il paradigma opportunistico della “rational ignorance” nell’informazione digitale è semplice: perché fare lo sforzo – pagando in denaro e/o dedicando tempo a ricerca e attenzione critica – per fruire di notizie di qualità, che richiedono un impegno di comprensione e verifica, quando è così comodo e naturale fruire di snack informativi gratuiti e accessibili, di volta in volta rassicuranti o provocatori, anche se nascondono fake news? Quando si innesca la spirale perversa di scambi descritta dalla legge di Gresham, l’effetto è l’ipersvalutazione dei beni informativi sul mercato dei media digitali, con la diffusione indesiderabile di fake news e commenti aggressivi, e un significativo danno al benessere sociale complessivo.

Finché l’oligopolio delle fonti informative ne sosteneva il valore di scambio con attenzione umana (sussidiata dalla pubblicità) ed eventualmente denaro (tramite acquisto/abbonamento editoriale), il mercato dell’ignoranza volontaria manteneva un equilibrio relativamente elevato rispetto al social welfare ottimale. Gli effetti reputazionali dei brand media costituivano infatti fattori critici di successo per il gradimento dei clienti nel mercato della fruizione a pagamento e/o degli inserzionisti nel mercato della pubblicità, incentivando gli editori agli investimenti necessari a mantenere elevati i livelli di qualità dell’offerta informativa. Il mercato dei media digitali – ma anche di quelli tradizionali – viene quindi inondato dalla moneta cattiva degli insulti e delle fake news, che attraggono naturalmente l’attenzione umana caratterizzata da basso costo opportunità (ovvero quella dell’ignoranza razionale volontaria).

Ed eccoci di fronte a uno dei grandi paradossi sociali dell’informazione digitale. Essa è stata sì resa universalmente producibile, distribuibile e accessibile a costi minimi, ma proprio per questo risulta facilmente sostituibile con surrogati a basso costo diretto (in termini di attenzione e denaro), anche se a elevato costo sociale nel medio termine: crisi dell’editoria di qualità e quindi del giornalismo di inchiesta e di ricerca, sussidio incidentale dell’offerta di fake news da parte degli inserzionisti pubblicitari, fenomeni di selezione avversa degli autori e dei soggetti editoriali, decadimento della qualità generale dell’offerta informativa con possibili effetti negativi sulla partecipazione democratica e sulla selezione della rappresentanza politica.

Come le pecore che pascolavano opportunisticamente sulle praterie condivise inglesi, anche in questo caso ci troviamo di fronte a una specie di “Tragedy of the Common News”, ovvero a un drammatico effetto economico sui beni informativi ad accesso libero. Senza più un prezzo associato, tutti i fruitori – la metafora delle pecore è qui molto calzante – ne fanno un uso opportunistico e smodato, e prevale la logica del “free riding”. Quando perde il valore posizionale e relativo, in quanto diventa un bene pubblico di fatto gratuito e non esclusivo, l’informazione viene svalutata e il mercato non è in più grado di remunerare la ricerca e la produzione di beni informativi di elevata qualità. L’effetto è che la dieta informativa delle pecore fruitrici peggiora progressivamente. Associata al principio dell’ignoranza razionale, e all’oligopolio de facto delle piattaforme che ne governano i meccanismi, questa dinamica può davvero costituire un serio rischio per il pluralismo e la democrazia. Se l’ignoranza non deve affrontare alcuna sanzione sociale, perché sottoporsi alla fatica di un’informazione diligente e della prudente e rispettosa moderazione dei commenti?


La tecnologia ha radicalmente ridotto il costo di produzione delle informazioni, e quasi azzerato il costo della loro distribuzione, ma le moderne società democratiche non hanno ancora trovato una soluzione efficace all’opportunismo dell’ignoranza volontaria e al sostegno della qualità d’offerta informativa. Applicando il principio del cosiddetto “forced raider”, per interrompere la spirale che spinge verso un equilibrio sub-ottimale del welfare sociale relativo all’accesso informativo, è quindi opportuno alzare il prezzo relativo dell’ignoranza volontaria, sul doppio lato della domanda nel mercato multi-laterale tipico delle piattaforme media: la domanda di informazione, sul lato del mercato dei contenuti, e quella di attenzione umana, sul lato del mercato pubblicitario.


È infatti difficilmente praticabile, nonché indesiderabile in una società liberale, effettuare interventi di restrizione sul lato dell’offerta informativa. Le limitazioni alla libertà di espressione, oltre che discutibili dal punto di vista del confronto democratico, risultano sempre più inapplicabili a causa della moltiplicazione e dispersione delle fonti informative su piattaforme digitali. I tentativi di regolamentazione delle fake news che intervengono con restrizioni o censure sul lato dell’offerta informativa sono quindi quasi sempre inefficaci e velleitari, e a volte velatamente – se non apertamente – distorsivi, arbitrari e censori.

L’obiettivo, perseguito dalla regolamentazione europea, di porre un limite normativo alla diffusione di notizie “palesemente false” o all’incitazione all’odio e alla violenza è umanamente comprensibile, ma deve sottostare alla prova del rigore logico ed economico, e non deve diventare un cavallo di Troia illiberale. L’accuratezza di una notizia o la violenza verbale di un commento non sono caratterizzate da una condizione binaria (vero/falso), bensì da una misura continua, che varia tra due valori estremi, meglio definibili come massimamente attendibile/rispettoso e massimamente inattendibile/irrispettoso. Ne consegue che la veridicità di una notizia – su un media tradizionale o su Internet – prima (e invece) di essere una condizione giuridica assoluta, è meglio interpretabile come un normale fattore economico: il suo prezzo è la reputazione della fonte; gli utilizzatori lo pagano – in denaro e/o in attenzione umana – con l’aumento della domanda informativa da fonti autorevoli, facendone quindi levitare il prezzo relativo in termini di valore dell’attenzione umana. Al contrario, l’inattendibilità della notizia riduce nel tempo il prezzo relativo della reputazione e inflaziona la produzione della fonte.

Proprio qui la richiesta di limitare per legge le fake news rischia di diventare fallace: nell’idea che qualità – e relativo prezzo – della veridicità debbano essere fissati centralmente da un’autorità centrale o statale, poiché non si può accollare allo sprovveduto lettore il gravoso onere dell’approfondimento e della verifica. Invece, come possiamo derivare dalla teoria della “rational ignorance”, non c’è alcun diritto precostituito a non essere “ingannati” da semplici notizie, perché altrimenti dovrebbe esistere un simmetrico – e impossibile – dovere (in capo a chi?) a prevenire ogni possibile forma di imprecisione editoriale; c’è semmai un legittimo – per quanto razionalmente limitato – interesse personale del lettore alla verifica e alla comparazione delle fonti, come in ogni atto di espressione delle preferenze personali nelle scelte di informazione. Se tale eccesso di tutela può essere ipoteticamente invocato per i minori, per cittadini adulti esso diventa, nella migliore delle ipotesi, paternalismo, spesso peloso; nella peggiore, censura di regime.

 

 

Ciò che consente meglio di comprendere e regolare il fenomeno delle fake news, quindi, non è una solenne Autorità Centrale della Veridicità, ma al contrario un modesto e ben più banale modello di scambio economico. Il mercato delle fake news, infatti, è antico come il mondo. È il mercato del mistero e del pensiero magico, dei miracoli e dei complotti. È l’atavico e mai sopito fabbisogno di spiegazioni semplici e immediate. E siccome la domanda rimane alta, l’offerta ne sfrutta razionalmente le dinamiche. Le fake news sono sempre state ospitate sui settimanali scandalistici, solo che ci si vergognava a comprarli (un po’ meno a leggerli dal barbiere), visto che comunque costavano qualche soldo. Ora il prezzo di accesso alle bufale è crollato praticamente a zero, grazie alle tecnologie digitali, ma non altrettanto ha fatto il valore di mercato dell’attenzione umana a esse associata, oggi facilmente catturabile tramite le piattaforme digitali, senza bisogno di una tradizionale concessionaria pubblicitaria. Quindi il business, per chi sa vederlo, è chiaro: sia esso un sito off-shore, un regime totalitario o un civilissimo movimento di cittadini onesti e pentastellati. Con Internet finisce l’oligopolio editoriale sul lato offerta, e si riducono i costi di produzione, distribuzione e accesso ai contenuti. I produttori di fake news, inoltre, puntano a minimizzare anche i costi accessori di controllo editoriale e le potenziali responsabilità legali e fiscali. Ma Internet ha cambiato anche il lato domanda, allargando la propria audience: fino a qualche anno fa, l’autoselezione culturale e tecnologica manteneva i social un luogo relativamente elitario, con una massa critica di utenti dotati degli strumenti per discernere. Ora su Internet ci sono tutti gli animali della fattoria umana. E si portano dietro il loro bagaglio di curiosità, domande e mezzi per affrontarle, per quanto limitati.

Il mezzo più efficace contro le bufale o gli insulti via social non è quindi la censura, ma l’irrilevanza e la marginalizzazione economica. Poiché essi danneggiano la reputazione di chi vi si ritrovi associato, anche solo indirettamente, tramite una semplice inserzione pubblicitaria, è legittimo che le aziende preferiscano starne alla larga, a tutela del proprio brand. È di fatto, ciò che sta accadendo a X/Twitter sotto la disinvolta e polemica gestione di Musk


Alcuni strumenti tecnologici per arginare (ma non certo per bloccare) questo fenomeno sono peraltro già a disposizione dalle piattaforme social, che hanno tuttavia solo un blando interesse a limitarlo, seppure non direttamente, bensì tramite forme di social rating e di fact checking affidato a terze parti. La soluzione più efficace ed efficiente, tuttavia, è attesa dallo sviluppo di processi algoritmici di autenticazione distribuita tramite modelli di elaborazione del linguaggio naturale. Ma i social media difficilmente accetteranno – per scelta strategica o per mero opportunismo – di prendersi la responsabilità integrale del controllo e quindi diventare editori e tutti gli effetti. La selezione editoriale affidata a Zuckerberg o Musk confina infatti da un lato con i paletti della libertà di espressione e dall’altro con il posizionamento da azienda tecnologica neutra – e non di media company, con tutte le sue responsabilità – che consente di non sottoporsi a una serie di vincoli normativi (e magari anche fiscali) ai quali invece sottostanno gli editori locali.

La strada, per quanto lunga e complessa, per limitare gli effetti indesiderabili delle fake news e degli insulti online è quindi sintetizzabile in tre punti: in termini tecnologici, consentire la ricostruzione dell’origine e della catena distributiva delle informazioni con meccanismi di tracciabilità digitale e di “social rating” distribuito sulla loro attendibilità. In termini economici, alzare il costo della reputazione di chi le produce e le distribuisce, così da consolidare un deterrente alla loro diffusione. In termini culturali, infine, la sfida è educare i cittadini all’accesso responsabile e critico alle fonti informative e alla selezione dei commenti.


Poi, si sa, succede sempre che qualcuno dia la colpa alle fake news per le sconfitte alle elezioni. Ma, caro Direttore, tra un sito russo che spaccia bufale sul web e il ferreo controllo editoriale della politica nazionale sulla TV di Stato, un liberale non vede tuttora molta differenza. O forse sì. il primo, infatti, si conquista i suoi “click bait” col sudore della propaganda, per quanto malvagia, cinica, volgare e strumentale. Al secondo, invece, basta mettere il canone in bolletta.

 

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