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Mare magnum di bonus

L'intreccio perverso tra assistenzialismo e lavoro nero

Alberto Brambilla e Claudio Negro

L’Italia premia chi non lavora e non paga le tasse: non è un caso se l’evasione è tanta e la manodopera poca

Abbiamo più volte sottolineato il pericoloso intreccio tra l’eccesso di prestazioni assistenziali e i modesti livelli di occupazione e di dichiarazione dei redditi, evidenziando che è proprio lo stato con le sue norme a incentivare bassa occupazione e alta evasione fiscale. Infatti, potremmo sintetizzare l’insieme di regole fiscali e assistenziali italiane come segue: “Più dichiari redditi più ti opprimo fiscalmente e meno prestazioni e servizio ti offro; viceversa, meno redditi dichiari e grazie al perverso meccanismo dell’Isee, ti offro una enormità di servizi e bonus”
Siccome gli italiani non sono stupidi, questo meccanismo lo hanno applicato alla lettera tant’è che quelli che dichiarano redditi lordi annui sopra i 35 mila euro sono solo il 15 per cento circa della popolazione, mentre il 65 per cento dichiara fino a un massimo di 25/26 mila euro, con un 42 per cento circa di popolazione che paga in media meno di 300 euro di Irpef l’anno (la sola spesa pro capite sanitaria è di oltre 2.200 euro l’anno e per garantire a questa quasi metà di popolazione la sola sanità il restante 35 per cento deve mettere sul piatto 60 miliardi l’anno, poi c’è tutto il resto).  

Ma quanto descritto non è l’unico incentivo di stato a evadere e lavorare il meno possibile. Abbiamo la Naspi, (la Nuova assicurazione sociale per l’impiego), una misura di sostegno al reddito che sostituisce l’indennità di disoccupazione, erogata mensilmente ai lavoratori dipendenti a tempo determinato o indeterminato, istituita dalla riforma Fornero come Aspi e trasformata in Naspi dall’art. 1, D.Lgs. n. 22/15. Spetta ai lavoratori che negli ultimi 4 anni hanno almeno 13 settimane di contributi effettivamente versati (prima della revisione del ministro Orlando occorrevano almeno 30 giornate di lavoro effettivo negli ultimi 12 mesi) ed è pagata per un periodo pari alla metà del tempo lavorato: se si è lavorato quattro anni si può stare in Naspi due anni e così via. Il punto è che questa possibilità si può esercitare quante volte si vuole; lavoro due anni e faccio l’anno sabbatico di un anno, poi lavoro ancora due anni e mi faccio un altro anno sabbatico e così via. L’importo mensile è commisurato alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni e pari al 75 per cento di un importo massimo di 1.352,19 euro mensili (per retribuzioni superiori la prestazione è pari al 75 per cento dell’importo di riferimento a cui si somma il 25 per cento del differenziale tra la retribuzione mensile e l’importo massimo). Inoltre, per i periodi di Naspi lo stato paga anche i contributi pensionistici (contribuzione figurativa), calcolati sulla retribuzione degli ultimi quattro anni e così anche la pensione è salva! Ma non è finita qui perché, se dopo i quattro anni di lavoro e i due di Naspi il soggetto risulta ancora disoccupato, può richiedere l’Adi (l’Assegno di inclusione) che può durare altri 18 mesi con una integrazione annua di 6 mila euro o più per particolari condizioni. 


Insomma, la legge offre l’opportunità di lavorare anziché 36 anni soltanto 24 anni, facendone ben 12 (un terzo) a spese dello stato e quindi di tutti noi. Sfruttando l’Adi si potrebbe non lavorare per altri sei anni o più; su 36 anni di vita lavorativa bastano 18 anni di lavoro usufruendo della pensione piena perché i contributi li paga l’Inps. Non male come incentivo. Forse sarebbe stato meglio che l’ex ministro Orlando prevedesse un “tetto” ragionevole alla prestazione; ad esempio, non più di quattro anni nell’intera vita lavorativa, compresi i periodi di Cassa integrazione e comunque quattro anni rappresentano oltre il 10 per cento di un normale periodo di vita lavorativa. Tanto più che la maggior parte degli esercizi commerciali, di ristorazione, alberghieri e le imprese, per non parlare del settore agro-alimentare, è alla continua ricerca di personale che non trova. La ricerca Excelsior del ministero del Lavoro e delle Camere di Commercio dice che il sistema produttivo richiederà nei prossimi mesi quasi un milione di posizioni lavorative ma, se va bene, ne troverà meno della metà. Ma quanti sono in Naspi? Circa 2,1 milioni l’anno, cui bisogna sommare un altro milione circa di cassintegrati. Su un totale di occupati di circa 23,8 milioni (record assoluto di tutti i tempi) abbiamo il 12,6 per cento di lavoratori assistiti! Un pessimo risultato, non c’è che dire, tanto più se si considera che per soddisfare la richiesta di manodopera del settore agro-alimentare e dell’industria, dobbiamo aprire le porte ogni anno a oltre 150 mila lavoratori stranieri stagionali e a molti altri. Insomma, siamo ultimi nella classifica Eurostat per tasso di occupazione, primi per Neet, ai primi posti per lavoro sommerso e ci permettiamo di avere il 12,6 per cento dei lavoratori in “panchina” mentre le attività chiudono o si riducono per mancanza di lavoratori: un paradosso. 


E poi c’è la dolente nota dei lavoratori stagionali soprattutto nel turismo (balneazione, ristorazione e servizi); sono tantissimi e da oltre 40 anni lavorano 6/8 mesi per ogni anno e a fine stagione anziché cercarsi un posto di lavoro regolare, chiedono la Naspi e per i restanti 4 mesi restano a carico dello stato e questo vale per l’intera vita lavorativa. Lo sanno tutti che in questi mesi gli stagionali fanno lavori in nero per non perdere la Naspi, eppure si prosegue così come per la disoccupazione agricola di cui beneficiano tutti i lavoratori agricoli che hanno 102 contributi giornalieri nel biennio (51 giornate l’anno) tra l’anno di richiesta e l’anno precedente, compresi i contributi figurativi e che per i restanti mesi (tanti) ricevono il 40 per cento circa del massimale Naspi e per il resto lavorano in nero e ciò può durare per l’intera vita lavorativa. E poi c’è la Dis-coll per i collaboratori e l’Alas per i lavoratori dello spettacolo. 


Insomma, in totale superiamo i 3,3 milioni di assistiti che, quando arrivano alla pensione di vecchiaia con 67 anni di età e 20 anni di contributi di cui quasi la metà figurativi, su quasi 300 mila richiedenti l’anno, la metà ha una pensione a calcolo di meno di 300 euro per cui lo stato (tutti noi) gli dà per il resto della vita l’integrazione al minimo e la maggiorazione sociale (circa 600 euro al mese), social card e 14° mensilità, sanità e tutto il resto gratis. Ma si può andare avanti così? Possiamo ancora permetterci oltre 3,5 milioni di pensionati assistiti in questo modo? E gli vogliamo pure alzare la pensione? Per questo proponiamo di alzare a 25 anni il minimo contributivo con non più di quattro anni figurativi e la maturazione di un importo di pensione pari a 1,5 volte l’assegno sociale (750 euro/mese) se no in pensione si va a 71 anni e più. Avremmo più occupati regolari, più Irpef, più contributi e risparmieremmo buona parte degli attuali 10 miliardi l’anno per le integrazioni.

Alberto Brambilla e Claudio Negro, CSR Itinerari Previdenziali

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