Mondo del lavoro
Sindacato cercasi. Una crisi sociale e politica ha colpito i corpi intermedi
Le sigle sindacali sonnecchiano mentre c’è da battagliare per una profonda riforma della contrattazione. Frantumati, proprio quando l'Ue raccomanda coesione. Specialmente di fronte ai nodi dei salari, produttività e cuneo fiscale
Sarà un autunno caldo, lo si sente già ripetere nelle redazioni dei giornali, sugli schermi della tv e nei corridoi dei ministeri. Attenti con le metafore meteo dopo questa rovente estate. E attenti ai richiami del passato: non c’è mai più stato nulla di simile all’autunno del 1969, tra scioperi a gatto selvaggio, astensioni generali, oceaniche manifestazioni, rinnovi a catena dei contratti di lavoro a cominciare da quello dei metalmeccanici, il nocciolo duro della classe operaia, anzi dell’operaio massa, come lo chiamava Toni Negri. Evitiamo quindi facili luoghi comuni. Certo è che il prossimo sarà un autunno difficile. Si moltiplicano i “tavoli di crisi”, torna la cassa integrazione, la produzione ristagna, la questione industriale s’incrocia con la “quistione meridionale” (che farà Stellantis a Termoli, e l’Ilva di Taranto finirà per chiudere?) e con la questione settentrionale, perché il tessuto di piccole e medie aziende che ha tenuto a galla l’Italia si sta lacerando, con le medie che vogliono diventare più grandi e le piccole che restano troppo piccole. Ebbene, in tutto questo che cosa fanno i sindacati?
L’Italia, così come gli altri paesi con i conti pubblici fuori registro (per esempio la Francia), tra un paio di settimane dovrà presentare piani dettagliati e convincenti per spiegare come intende uscire dalla procedura d’infrazione e rispettare nei prossimi anni le nuove regole del patto di stabilità. Questi piani, lo raccomanda la Commissione europea, vanno condivisi il più ampiamente possibile, quindi debbono essere discussi con i corpi intermedi, le parti sociali, a cominciare dalle organizzazioni sindacali. Già, ma dove sono i sindacati, in Italia e nel resto d’Europa? La risposta più ovvia è che stanno dormendo un lungo sonno dal quale nessuno sa se, come e quando si risveglieranno. Una crisi che li ha gettati in una profonda depressione. Anzi, più di una singola crisi provocata da una sola causa scatenante, si tratta di quattro crisi parallele che a un certo punto della storia hanno cominciato a convergere, facendo sobbalzare Euclide nel suo sarcofago.
La prima crisi è sociale, con la trasformazione del lavoro, il prevalere dei servizi sulla manifattura, la fine della grande fabbrica, un tempo cuore della produzione materiale e architrave della collocazione sociale. E’ stato detto, scritto, ripetuto un’infinità di volte ed è senz’altro vero. “La classe operaia senza paradiso”, così la Fondazione Feltrinelli ha intitolato un workshop curato dal politologo Marc Lazar. La proliferazione dei rapporti di lavoro ha fatto perdere efficacia alla contrattazione collettiva che nel caso italiano s’è trasformata in un boomerang e ha messo in ginocchio le confederazioni sindacali lasciando spazio a piccole organizzazioni, mentre ogni soggetto finisce per trattare individualmente con l’azienda.
Le trasformazioni sociali sono avvenute all’interno di una profonda transizione economica. Culmine di questo percorso è la globalizzazione che ha messo i lavoratori dei paesi industrializzati in concorrenza con quelli dei paesi in via di sviluppo; si è formato così un “esercito industriale di riserva”, per parafrasare una vecchia idea marxista, su scala mondiale. Ciò ha spinto in basso i salari: anche se l’inflazione era scesa ai minimi dal 2012 fino al 2021, il reddito dei lavoratori s’è appiattito là dove, come nell’industria che esporta i propri prodotti, il metro di paragone è ormai la “fabbrica mondiale”, cioè la Cina. Mentre le tecnologie informatiche e i robot creavano nuove figure professionali, si è prodotta quella che l’economista Andrea Fumagalli chiama una “smaterializzazione del capitale”; oggi nei bilanci delle imprese il capitale intangibile (il marchio, la pubblicità, i prodotti finanziari, ma soprattutto le competenze, l’esperienza) e il capitale umano superano spesso per valore e importanza il capitale tangibile (macchine e merci). Ciò ha riflessi importanti sul lavoro e la sua organizzazione. Anche chi non è d’accordo che “ormai siamo tutti classe media” non può negare che le tute blu hanno indossato i camici bianchi.
La terza crisi è politica: “La lotta di classe esiste, solo che l’abbiamo vinta noi”, è una battuta attribuita a Warren Buffett, l’oracolo di Omaha al quale si sono rivolti tutti i campioni della nuova rivoluzione del capitale, a cominciare dalla “strana coppia” Bill Gates e Steve Jobs. La frattura degli anni '80 provocata dalla svolta reaganiana non si è mai ricomposta, al contrario. Ma qui bisogna stare attenti a una diffusa quanto sbagliata semplificazione: non è affatto vero che il mondo operaio, anche quello organizzato, si riconoscesse in passato integralmente nella sinistra. Secondo Lazar, “l’idea di un ipotetico universo operaio compatto e unito attorno ai valori dell’uguaglianza fa parte di una ricostruzione mitologica, necessaria forse per l’edificazione di una identità politica, ma non certo utile all’indagine storica”. Nel frattempo quel che avevano da offrire i partiti con radici operaie è arrivato al culmine provocando una crisi fiscale dello stato: quanto potrà essere esteso il welfare state senza aumentare le tasse e l’indebitamento?
E arriviamo così alle componenti culturali della crisi sindacale. Punto di partenza il rapporto tra il mercato e lo stato: i sindacati debbono rappresentare interessi in libero e aperto conflitto tra loro sull’arena del mercato o sono cinghie di trasmissione del consenso che partono dalle istituzioni statali? La raccomandazione rivolta dalla Ue è frutto di questa seconda impostazione che in altre fasi è stata chiamata patto sociale o neocorporativismo. Questa strada in Germania la può seguire la confederazione sindacale Dgb, in Italia la Cisl, mentre la Cgil guidata da Maurizio Landini si definisce ormai come “il sindacato dei diritti”, non solo del diritto al lavoro e nemmeno dei diritti civili in senso stretto, ma di tutta la variegata gamma di condizioni individuali o di gruppo che un tempo erano lasciate ad altri ambiti, soprattutto all’etica e alla politica.
Questo gran calderone ribollente ha ridotto la “densità sindacale”, come la chiama l’Ocse (l’organizzazione dei paesi più industrializzati), e che potremmo definire penetrazione sindacale. Gli ultimi dati sull’Italia risalgono al 2019 e allora era al 32,5 per cento, un livello molto elevato, ben superiore alla Spagna (12,5 per cento), alla Germania (16,3) e al Regno Unito (23,5) dove si è vista recentemente una certa ripresa delle Trade unions che ha accompagnato la vittoria dei laburisti. Nella iper-conflittuale Francia la densità non supera il 9 per cento, la maggior parte delle rivolte a cominciare dai gilet gialli hanno come matrice non le lotte operaie, ma le antiche jacquerie, le insurrezioni scoppiate nelle aree rurali e periferiche. Francia a parte, la sindacalizzazione più bassa si registra nei paesi baltici, in Turchia (vera mecca per le multinazionali) e negli Stati Uniti (9,9 per cento). La più alta nel nord Europa: Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia con quote che vanno da due terzi a metà dei lavoratori dipendenti.
In Italia dall’inizio del nuovo millennio, le due principali organizzazioni sindacali hanno perso complessivamente 231 mila iscritti. L’emorragia maggiore ha colpito la Cgil, ma il vero crollo è avvenuto dopo la grande crisi dei debiti sovrani: dal 2012 in poi sia la Cgil sia la Cisl hanno piazzato mezzo milione di tessere in meno. La Uil si è mossa in controtendenza: i dati sono disponibili soltanto a partire dal 2015, ma da allora non c’è stato alcun tracollo e dal 2017 è cominciata una certa crescita, in media dell’1,4 per cento, che non inverte certo la tendenza generale. Il sindacato non attira i giovani, poco le donne, e davvero tanto solo i pensionati che rappresentano circa la metà degli iscritti. Anche questa è una fotografia dell’odierno mercato del lavoro. Si sciopera soprattutto nei servizi (in particolare trasporti) e nella Pubblica amministrazione. La conflittualità industriale è molto bassa. Eppure, attenti a intonare in anticipo il de profundis perché nel loro insieme gli iscritti ai sindacati ammontano a quasi dodici milioni: circa cinque alla Cgil, quattro alla Cisl e due milioni e 300 mila alla Uil. In un’Italia dove si assottigliano i corpi intermedi, la politica si concentra sugli umori (e spesso gli amori) del leader e i partiti sono solo macchine elettorali, quale organizzazione può vantare tanti aderenti?
Pur senza negare tutte le altre crisi, insomma, non c’è dubbio che prevale la crisi politico-ideologica. L’articolo 40 della Costituzione sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale: in seguito alle prime scissioni politiche della Cgil unitaria nel 1948, sono nate la Cisl a prevalenza cattolica e la Uil (repubblicani e socialdemocratici) che hanno lasciato la compagnia di comunisti e socialisti. Oggi le sigle sindacali si sono moltiplicate, al punto che se ne possono contare centinaia. Ce ne sono di politiche come la Ugl (Unione generale del lavoro), il sindacato di estrema destra erede della Cisnal missina, o i Cobas (Confederazione comitati di base) con una radice di estrema sinistra, e l’Usb (Unione sindacale di base), nata soprattutto nel settore pubblico che si è avvicinata ai Cinque stelle. Sono emerse organizzazioni che accorpano diversi sindacati che si definiscono indipendenti come l’Fsi (Federazione dei sindacati indipendenti), o autonomi, come la Cisal (Confederazione italiana sindacati autonomi lavoratori). Una frantumazione che riflette la società italiana: più che liquida sembra fatta di mercurio libero con una miriade di palline saltellanti prima di evaporare velocemente. I sindacati non hanno fatto nulla per raccogliere e ricomporre le goccioline, ma soprattutto c’è un tema trasversale che hanno evitato di affrontare o non ne sono stati in grado.
E se adesso il sindacato dei diritti tornasse a fare il sindacato dei salari? Una riconversione difficile, ci vuole coraggio, ma l’Italia è il paese Ocse dove, durante la fiammata inflattiva, i lavoratori hanno subìto la più forte perdita di potere d’acquisto: meno 9 per cento nel terzo trimestre 2023 rispetto al 2019. Ovunque l’aumento degli occupati fa aumentare anche le retribuzioni, lo dimostrano gli Stati Uniti dove il prodotto lordo continua crescere più che in altri paesi, Cina compresa. In Germania, poi, le buste paga si sono rimpinguate nonostante la stagnazione produttiva perché mancano i lavoratori e le imprese li attirano con salari migliori. In Italia no, anzi avviene il contrario, eppure anche qui c’è un eccesso di posti di lavoro offerti rispetto alla manodopera disponibile. Come si spiega questo paradosso? Non è facile, però i sindacati non ci hanno nemmeno provato.
Il punto chiave è la bassa crescita del prodotto lordo italiano e in particolare di quello pro capite. Secondo le stime dell’Ocse nel 2000 il pil per abitante in Italia era molto superiore a quello spagnolo e poco inferiore a quello francese e tedesco. La Spagna s’è avvicinata, Francia e Germania s’allontanano. Allora il punto di incontro tra le tre principali economie era attorno a un reddito di 30 mila dollari annui a prezzi e tassi di cambio costanti; oggi l’Italia, dopo una breve crescita fino al 2010, s’è fermata a 32 mila dollari, la Germania è a 42 mila, la Francia oltre 38 mila e la Spagna a 26 mila. Gli Stati Uniti sono passati da 45 a 62 mila, alla faccia del declino americano. Le retribuzioni medie a parità di potere d’acquisto hanno seguito lo stesso percorso: nel 2000 erano attorno a 40 mila dollari in Italia e Francia, poco meno in Spagna con la Germania oltre 45 mila; oggi l’Italia e la Spagna sono rimaste allo stesso livello, la Francia sfiora i 50 mila, la Germania supera i 55 mila dollari, gli Stati Uniti è a 75 mila.
Ogni ora lavorata in Italia produce 55 dollari contro i 67 della Germania, i 68 della Francia e i 73 degli Usa. Colpa del piccolo è bello? Uno studio del McKinsey Global Institute sottolinea che le piccole e medie imprese sono importanti ovunque: contano per i due terzi dei posti di lavoro globali, ma in Italia sono addirittura tre quarti. Mentre in totale rappresentano il 54 per cento del valore aggiunto, in Italia siamo al 63. La produttività è largamente inferiore a quella delle aziende maggiori, almeno del 50 per cento, quella delle piccole imprese italiane è un po’ superiore, ma siamo comunque al 58. In Italia gli imprenditori hanno investito in nuovi macchinari più dei loro concorrenti tedeschi anche grazie agli incentivi statali, tuttavia il guadagno di produttività è stato inferiore. Non basta attaccare un computer alla presa. Si devono riorganizzare i luoghi di lavoro utilizzando un modello di gestione meritocratico e orientato ai risultati. Gli operai tedeschi sono più specializzati degli italiani i quali nelle mansioni più ripetitive potrebbero competere piuttosto con la manodopera polacca che comunque costa meno.
La contrattazione collettiva in Italia è ancora largamente dominante rispetto a quella aziendale o individuale, nonostante i cambiamenti degli ultimi due decenni. I contratti nazionali hanno avuto il merito di tutelare i lavoratori con bassa professionalità i quali non hanno una grande forza nei confronti delle aziende, tanto che i livelli retributivi di fascia inferiore, ossia quelli dei lavori e dei ruoli più modesti, sono piuttosto alti rispetto alla media europea. Ma ciò ha appiattito le retribuzioni degli specializzati e di chi merita di più, riducendo lo stesso spazio di manovra delle imprese, soprattutto proprio di quelle piccole e medie. Una profonda riforma della contrattrazione è dunque la vera chiave di volta per aumentare la produttività e la busta paga; non lo è il cuneo fiscale, al contrario di quel che sostengono i sindacati e il governo, anche il governo di destra. In Francia e in Germania dove i salari e la produttività come abbiamo visto sono più alti, anche la quota che tra tasse e contributi va allo stato è superiore. In Italia il cuneo fiscale è eccessivo, sia chiaro, siamo al 45 per cento del costo del lavoro, tuttavia agire solo su questa leva diventa un modo per far pagare allo stato, cioè a tutti i contribuenti, quel che invece spetta al rapporto tra impresa e dipendenti. Un alibi che alimenta il sonno e l’impotenza dei sindacati. Parole dure? Parole vere che, nel nostro inguaribile ottimismo, possono dare il la a una seria riflessione, senza maschere né paraocchi ideologici.