Sulle pensioni il governo Meloni è più virtuoso dei suoi predecessori

Luciano Capone

Dal Conte I (-17 miliardi) a Draghi (-4 miliardi), passando per il Conte II (-2,5 miliardi), la premier e Giorgetti non solo hanno speso di meno, ma hanno tolto risorse dalla previdenza (+4 miliardi) per metterle sul lavoro

Ieri il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha illustrato in Consiglio dei ministri le nuove procedure fiscali europee, che includono il Piano strutturale di Bilancio, che l’Italia dovrà presentare a Bruxelles entro il 20 settembre. Con il documento, il governo dovrà definire una traiettoria di spesa netta coerente con le nuove regole e i parametri stabiliti dalla Commissione per ridurre il deficit e stabilizzare il debito. Vuol dire che gli spazi per le misure fiscali si ridurranno. In questo contesto, nelle ultime settimane, le forze di maggioranza hanno parlato molto di pensioni. Un capitolo su cui, a dispetto della retorica, il governo Meloni, a sorpresa, è stato molto responsabile. Più di tutti gli ultimi governi.

È indubbiamente vero che i partiti di centrodestra a ogni tornata elettorale si sono presentati con programmi irresponsabili che puntavano ad aumentare la spesa previdenziale sfasciando i conti pubblici: l’“abolizione della legge Fornero”, da almeno un decennio promessa da Matteo Salvini, oppure le “pensioni minime a mille euro” promesse da Forza Italia. Ma se si guardano i numeri, ovvero i provvedimenti realmente adottati sul tema delle pensioni, il governo Meloni è quello che – partendo dal governo Conte I, passando per il governo Conte II, fino ad arrivare al governo Draghi – ha messo meno risorse aggiuntive sulle pensioni. Anzi, le ha tolte.

Il governo più prodigo è stato senz’altro quello dell’Avvocato del popolo, il primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte, quello in versione gialloverde frutto dell’alleanza tra il M5s di Luigi Di Maio e la Lega di Matteo Salvini, due partiti che avevano vinto le elezioni promettendo di superare la legge Fornero. Quella promessa si trasformò nell’apertura di una finestra triennale di uscita anticipata per chi aveva almeno 62 anni di anzianità e 38 anni di contribuzione: la famosa Quota 100. Le risorse stanziate sul capitolo pensioni dal ministro dell’Economia Giovanni Tria nella legge di Bilancio per il 2019, volendo escludere la “pensione di cittadinanza” che era la versione del Reddito di cittadinanza riservata ai pensionati, furono notevoli.

Solo per Quota 100 circa 4 miliardi nel 2019, poi 8,3 miliardi nel 2020 e 8,7 miliardi nel 2021: 21 miliardi per tre anni. Il governo Conte I aveva previsto anche un taglio dell’indicizzazione delle pensioni oltre tre volte il minimo e un taglio delle “pensioni d’oro” che, insieme, ammontavano a circa 4 miliardi di risparmi sul triennio. In totale, lo stanziamento era di 17 miliardi nei primi tre anni. 

È vero che poi l’utilizzo di Quota 100 è stato inferiore alle attese, ma la spesa è stata comunque importante. Secondo un’analisi dell’Inps e dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, la spesa effettiva stavolta proiettata più avanti, fino al 2025, “può attestarsi a circa 23 miliardi”, un importo “inferiore di circa 10 miliardi rispetto ai 33,5 miliardi originariamente stanziati”.

Il governo Conte II, quello in versione giallorossa con il Pd, ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, nella legge di Bilancio per il 2020 ha lasciato in vigore Quota 100 e ha semplicemente rifinanziato l’Ape sociale e Opzione donna con un costo di circa 1 miliardo sul triennio. Nella sua seconda manovra, il governo Conte II ha replicato le misure dell’anno precedente con altre piccole aggiunte stanziando circa 1,5 miliardi sul triennio. In totale 2,5 miliardi, sommando le due leggi di Bilancio.

Il governo Draghi, con Daniele Franco al ministero dell’Economia, nella legge di Bilancio per il 2022 ha aggiunto Quota 102 (una versione più restrittiva di Quota 100) al costo di 1,4 miliardi sul triennio; confermato Ape sociale e Opzione donna; aggiunto altre misure previdenziali. Totale: 4 miliardi sul triennio.

Arriviamo così al governo Meloni. Nella prima legge di Bilancio il ministro Giorgetti ha introdotto Quota 103 (2,1 miliardi sul triennio); aumentato le pensioni minime (0,9 miliardi); rifinanziato Ape sociale e Opzione donna (0,6 miliardi); ma ha tagliato l’indicizzazione delle pensioni per il biennio successivo recuperando 10 miliardi sul triennio. Il saldo, così è positivo di circa 7 miliardi.

Nella seconda legge di Bilancio, quella per il 2024, Meloni e Giorgetti hanno finanziato una Quota 103 ancora più rigida; Opzione donna più restrittiva e Ape sociale, più altre piccole misure. Totale: 2,7 miliardi di spesa. Il bilancio complessivo sulle pensioni delle due manovre, è per il governo Meloni pari a oltre 4 miliardi di risparmi. Risorse che sono state utilizzate per coprire parzialmente il potenziamento della decontribuzione fino a 7 punti percentuali per i lavoratori a basso-medio reddito, una misura che costa circa 11 miliardi all’anno.

Da un lato, quindi, l’esecutivo, è andato verso la piena attuazione della riforma Fornero e dall’altro ha sostenuto il reddito dei lavoratori. Meno risorse per le pensioni, più risorse per il lavoro. È ciò che deve fare un paese come l’Italia, in declino demografico e con un elevato debito pubblico.

Sarebbe un errore se Meloni e Giorgetti, dopo aver fatto meglio dei loro predecessori, decidessero di cambiare linea sulle pensioni. Soprattutto dopo i dati positivi di ieri dell’Istat sull’occupazione, che mostrano un mercato del lavoro in crescita e in salute.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali