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L'analisi

Per rafforzare l'assegno unico non servono più soldi ma correre con il Pnrr

Marco Leonardi

Nonostante l'assegno unico sia stata una misura di successo, persistono alcuni problemi, come il sostegno insufficiente per i figli over 21 e le difficoltà nel gestire la non autosufficienza degli anziani. Alcune soluzioni

L’assegno unico e universale per i figli è stata una delle politiche di maggior impatto degli ultimi anni, ci ha messo più di sei anni di gestazione prima di essere messo in funzione, nessuna meraviglia che sia molto difficile da cambiare. Non perché sia perfetto, anzi ci sono molte cose che possono essere migliorate, ma non sono quelle che intende Giorgia Meloni. È utile ripercorrere le tappe di una così lunga gestazione.
 

La discussione inizia nel 2015: la preoccupazione fondamentale era rafforzare le politiche per la famiglia perché l’Italia spendeva molto meno dei nostri vicini europei e soprattutto mettere ordine a una pletora di politiche diverse che cambiavano di anno in anno. Ai tempi c’erano il bonus bebè, il bonus per il terzo figlio, il bonus baby sitter e altre misure. L’assegno unico nasce come misura comprensiva e universale in sostituzione di due dei capisaldi precedenti: l’assegno al nucleo familiare per i lavoratori dipendenti e le detrazioni fiscali per i figli a carico – al costo netto di 6 miliardi aggiuntivi per lo stato. La misura fu studiata e discussa da diverse associazioni e parlamentari già durante i governi Renzi e Gentiloni, finanziata durante il Conte 2 e infine implementata dal governo Draghi. Le discussioni furono accese in particolare su due punti: quanto servissero i soldi per aumentare la natalità piuttosto che i servizi (la questione si risolse con il Pnrr che finanziò gli asili nido, liberando così i soldi per l’assegno); e quanto l’assegno dovesse essere davvero “universale” cioè pagare un beneficio seppur piccolo anche ai redditi alti. Alla fine l’assegno unico è sicuramente una politica pubblica di successo che ha messo ordine nel variegato mondo degli incentivi, ha allargato i benefici anche agli incapienti, che prima non avevano diritto alle detrazioni, e ai lavoratori autonomi che non avevano diritto all’assegno al nucleo familiare. Con la sua istituzione si ridusse anche il costo del lavoro perché si eliminò il contributo che le aziende versavano agli assegni familiari. Ma ancora oggi il sostegno ai figli over 21 (un miliardo/anno) che studiano è rimasto fuori dall’assegno per mancanza di fondi. Infine ha il grosso vantaggio di essere percepito come un pagamento INPS sul conto corrente invece che come una detrazione fiscale o una ritenuta alla fonte che il cittadino non vede mai.
 

Il problema oggi è la contestazione della Commissione europea sul pagamento dell’assegno anche ai figli non residenti dei lavoratori immigrati? Mi pare poca roba per mettere in discussione uno strumento così importante (cosa che per fortuna il governo ha smentito di voler fare). Se si vuole cambiare l’Isee per diminuire il peso del patrimonio si può fare direttamente senza cambiare l’assegno: non c’è bisogno di introdurre la discussione sul quoziente familiare che avrebbe solo l’effetto di disincentivare il lavoro femminile. Se si vuole aumentare (o ridurre) il pagamento alle famiglie ad alto reddito si può fare direttamente, senza reintrodurre   tutti quei bonus particolari che erano usciti dalla porta: il “bonus mamme”, per le madri lavoratrici dipendenti con due o più figli finanziati per un solo anno, il bonus nido, il bonus pannolini eccetera. Quello che il governo non vuole capire, è che gli incentivi alla natalità hanno bisogno di stabilità nel tempo: nessuno pensa di fare un figlio perché gli danno dei soldi, che comunque saranno sempre troppo pochi, soprattutto se saranno temporanei. Il vero problema dell’Italia è  finire il Pnrr con i servizi d’asilo diffusi su tutto il territorio e affrontare culturalmente il problema dei congedi paritari che i padri non prendono anche se sono “obbligatori”.
 

C’è tuttavia un pensiero molto diverso tra 10 anni fa e adesso: 10 anni fa si pensava che dovevamo spendere di più per aumentare il numero dei figli, adesso si è capito che la spesa non cambia la demografia. Per lo meno per i prossimi vent’anni, sappiamo già quale sarà il nostro andamento demografico e dobbiamo gestire i problemi di una società che invecchia. Il governo farebbe bene ad affrontare  problemi ancora irrisolti come le misure per affrontare la non autosufficienza degli anziani e la non adeguatezza delle pensioni di chi presto andrà in pensione con il sistema contributivo. La legge sulla non autosufficienza c’è nel Pnrr, ma non ci sono i soldi né un consenso su una politica coerente che è fatta di pubblico e di privato, di strutture e finanziamenti statali e regionali. Oggi, oltre all’assegno di accompagnamento, c’è  un esonero contributivo di massimo 3mila euro annui per 24 mesi, destinato agli ultra 80enni con Isee sotto 6mila euro, per chi assume a tempo indeterminato una badante. Finanziato a tempo per circa 20mila anziani a fronte di 4,5 milioni di non autosufficienti. Sulla non-autosufficienza sembra di rivivere il parallelo di 10 anni fa, quando sulle politiche per la natalità mancava un disegno complessivo.

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