l'analisi
Capire il piano Draghi, senza pensare che la svolta dell'Ue passi dai soldi
La zoppia europea è la conseguenza della sua mancata volontà di cambiare. L'ex presidente del Consiglio ha presenta il cammino verso una “Europa potenza” sia pur nel medio-lungo termine, chiudendo così uno dei dilemmi strategici che aveva diviso e appassionato gli eurocrati di Bruxelles
Stati Uniti, l’Unione europea e la Cina sono le tre gambe sulle quali si regge l’economia mondiale, ma quella europea è una gamba zoppa. Il rapporto Draghi presentato ieri è un’analisi senza veli, un grido di allarme, un progetto, politico non solo economico, che non piacerà ai populisti, ai sovranisti, ai demagoghi. La zoppia europea è per molti versi radicata nella storia, ma soprattutto è la conseguenza della sua mancata volontà di cambiare. Oggi la Ue non può più rintanarsi in antiche e consolatorie scusanti, è rimasta indietro nella crescita, nell’innovazione, nella transizione energetica e ancora più nella difesa. A lungo l’Europa, sotto l’ombrello della Nato, si è cullata nella convinzione di possedere un modello più equo e progressivo: meno cannoni, più burro ben spalmato. In realtà il reddito pro capite è cresciuto in America due volte di più dal 2000 ad oggi. Ora si tratta di fare i conti con la realtà per troppo tempo rimossa. E sono conti salatissimi: 750-800 miliardi di euro l’anno in investimenti aggiuntivi, qualcosa come il 4.4-4,7% del prodotto lordo annuo. “Gli investimenti del Piano Marshall nel periodo 1948-51 equivalevano all'1-2% del Pil dell’Ue”, ha detto Draghi. L’obiettivo non è impossibile, tuttavia non basta il risparmio privato, nuove risorse debbono venire dal bilancio comunitario, ma occorre soprattutto che la Ue offra sul mercato titoli comuni di debito come è avvenuto per il Next Generation Eu, il piano post pandemia. Attenzione, non è solo questione di denaro. Investire di più è uno spreco se non si spende nel fattore chiave: l’innovazione. E’ proprio qui che la Ue ha un’abissale distanza dagli Usa e resta indietro ormai persino rispetto alla Cina.
Draghi ci presenta il cammino verso una “fortezza Europa” o meglio una “Europa potenza” sia pur nel medio-lungo termine, chiudendo così uno dei dilemmi strategici che aveva diviso e appassionato gli eurocrati di Bruxelles. Come reagiranno i governi che pensano di poter risolvere i problemi per proprio conto, caso per caso? E quelli che, prendendo atto del ritardo, alla fine si affidano alla Cina nell’energia (come la Germania) o nell’auto (come l’Italia)? I rigoristi saranno d’accordo a finanziare il cambiamento con debito comune? Draghi raccomanda che a più debito europeo si accompagni meno debito nazionale, però non basterà a superare la sfiducia verso i paesi spendaccioni. E i sovranisti di ogni sfumatura vorrano rinunciare al voto a maggioranza, altro punto fermo delle proposte presentate ieri? Dal Partito popolare europeo arriva un primo commento: “Draghi ha ripreso il bazooka” come fece quando alla guida della Banca centrale europea tra il 2011 e il 2012 bloccò la crisi e salvò l’euro. Ursula von der Leyen ha detto che “prima c'è la definizione di priorità e progetti comuni, poi ci sono due strade possibili: i finanziamenti nazionali o nuove risorse comuni”. Ma nessun paese è grande e forte abbastanza per reggere l’assalto cinese e agguantare l’America. Il rapporto sulla competitività occupa 62 pagine ed è diviso in sei capitoli, il punto di partenza è il nuovo scenario mondiale in cui l’Europa si trova ad agire. Il secondo riguarda i mezzi e le proposte per “chiudere il divario di innovazione”. Il terzo un “piano comune per la decarbonizzazione e la competitività”. Poi arriva la difesa e la sicurezza per “ridurre la dipendenza”. Il quinto capito è su come finanziare questo ambizioso progetto e ultimo, ma certo non per importanza, è “rafforzare la governance”. Proprio da qui in realtà bisogna partire perché l’Europa non può affrontare la sua sfida “esistenziale”, l’ha chiamata Draghi, così com’è adesso: divisa, confusa, ingessata dal potere di veto che consente anche al più piccolo dei paesi di bloccare tutti gli altri. Bisogna, allora, rivedere i trattati? Pragmaticamente il rapporto propone di “sfruttare tutte le possibilità offerte per estendere il voto a maggioranza qualificata” che dovrebbe essere "esteso a più aree", auspicando anche il ricorso alla "cooperazione rafforzata”. L’iter legislativo è lungo in media 19 mesi, ma la stessa attività normativa della Commissione è cresciuta “eccessivamente”. Da un lato i parlamenti nazionali dovrebbero esaminare le iniziative comunitarie per garantire maggiore sussidiarietà; dall’altro le stesse istituzioni europee dovrebbero avere “un maggiore autocontrollo”. Tra le barriere da abbattere ci sono quelle che impediscono il mercato unico e qui il rapporto Draghi si connette a quello già presentato da Enrico Letta.
Non si tratta, dunque, di un discorso sul metodo perché il “manuale d’istruzioni” che ha l’ambizione di offrire l’agenda per la nuova commissione, presenta una gran quantità di proposte, ben 170 all’insegna della “concretezza” non solo dell’”urgenza”. Una delle più rilevanti anche per le sue ricadute nazionali è l’integrazione dell’industria della difesa in modo da raggiungere la taglia necessaria. I paesi europei tra la metà del 2022 e la metà del 2023 hanno finanziato per il 78% fornitori non europei, il 63% dei quali americani. Si tratta anche di mettere in campo una “politica economica estera” basata sulla sicurezza delle risorse strategiche. Una delle prime decisioni da prendere è approvare la legge sulle materie prime strategiche. Occorre poi di sviluppare "nuovi programmi a duplice uso (sia militare sia civile, ndr.) e progetti europei di interesse comune”. Anche i sostegni all’industria debbono essere concentrati sulle priorità e non dispersi, ma a questo punto non ci vuole nessun atteggiamento punitivo nemmeno per fusioni e acquisizioni. La politica energetica è una delle più divisive mentre cresce la spinta a rinviare gli obiettivi di decarbonizzazione a dopo il 2035 (compresi i motori a combustione). Il rapporto propone di abbassare il costo dell’energia per l’utente finale anticipando i benefici generati dalla decarbonizzazione che va accelerata non rallentata usando tutti i mezzi possibili. La neutralità tecnologica piace anche ai resistenti, ma il piede sull’acceleratore non s’addice certo alle forze della destra europea.