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Investimenti

Il dramma europeo si chiama venture capital. Capire l'agenda Draghi

Carlo Alberto Carnevale Maffè

L'Unione europea non sta più investendo in settori strategici per il futuro e accumula crescenti ritardi rispetto a Stati Uniti e Cina

L’analisi del malessere economico europeo proposta da Draghi è chiara e incontestabile: ciò che la rende particolarmente amara è che è in gran parte già nota da anni, e tuttavia è stata finora largamente ignorata da istituzioni e imprese europee. Come rimedio, Draghi chiede all’economia europea un piano di investimenti massicci, pubblici e privati, per colmare questo divario, con impieghi annui di circa 800 miliardi di euro per almeno cinque anni. Di questi, 450 miliardi dovrebbero essere dedicati alla transizione energetica, 150 miliardi alle tecnologie digitali, 50 miliardi alla difesa e sicurezza e 100-150 miliardi alla produttività e innovazione.

Ed è su come finanziare questi investimenti che l’iniziale consenso sulla diagnosi diventa molto presto dissenso esplicito sulla cura proposta. Vediamo perché. Il rapporto rivela un quadro preoccupante per l’Europa in vari settori strategici, evidenziando come il continente stia accumulando un crescente ritardo rispetto a concorrenti come Stati Uniti e Cina. In particolare, si evidenzia un grande gap negli investimenti produttivi che riguarda settori avanzati come il digitale, la difesa, la sicurezza, l’energia e l’aerospazio. Questo gap è sintomo di una politica frammentata e di una mancanza di coordinamento a livello europeo, soprattutto nel campo della ricerca e sviluppo (R&D). Mentre l’Europa fino al 2010 superava gli Stati Uniti in termini di investimenti, nell’ultimo decennio il panorama è mutato drasticamente. Il continente ha continuato a investire in immobili e infrastrutture più che nelle tecnologie innovative, accumulando un divario rispetto ai rivali globali.

Il problema non risiede tanto nella quantità degli investimenti quanto nella loro frammentazione. A partita di investimenti complessivi in R&D, gli Stati Uniti vantano un bilancio federale centralizzato circa 13 volte più grande di quello europeo, dove predominano sussidi nazionali non coordinati. La mancanza di coordinamento tra paesi è anche alla radice della crisi energetica che ha fortemente contribuito alla recente fiammata inflattiva: l’Europa è il più grande acquirente mondiale di gas, ma – diversamente da quanto fatto per i vaccini, durante la pandemia – non ha saputo aggregare il proprio potere negoziale, finendo di fatto per cedere al ricatto messo in atto dal Cremlino.

Un altro aspetto critico è l’incapacità dell’Europa di innovare, mentre la Cina ha smesso di copiare e ha iniziato a guidare l’innovazione globale. Se fino a vent’anni fa l’indice di innovazione europeo era il doppio di quello cinese, oggi il divario si è ridotto al 5%, segno evidente di una perdita di competitività e di leadership tecnologica.

La mancanza di visione strategica si manifesta in vari ambiti, ma soprattutto nel settore della difesa. Mentre la Cina ha quintuplicato le proprie spese militari negli ultimi vent’anni, l’Europa spende appena un terzo rispetto agli Stati Uniti e gran parte degli acquisti europei di tecnologie militari proviene da importazioni americane. Questo non solo indebolisce l’autonomia industriale europea, ma rafforza ulteriormente l’industria militare statunitense. Il settore della “space defence”, ad esempio, è dominato dagli Stati Uniti, mentre l’Europa continua a investire briciole, rendendosi sempre più marginale anche in un ambito cruciale per la sicurezza futura.

Ora che l’Europa si accorge tardivamente della crisi, in buona parte autoindotta, dell’industria automobilistica locale, Draghi ha buon gioco a criticare la rigidità ideologica del Green Deal e il mancato rispetto del principio di neutralità tecnologica. Dal 2000 al 2022, la quota globale di autoveicoli prodotti dall’Europa è scesa dal 31% al 15%, mentre la Cina ha visto un incremento significativo, passando dal 4% al 32%. Questo dato non rappresenta solo una crisi industriale, ma una perdita di competitività in uno dei settori storicamente più rilevanti per il continente: il costo di produzione delle batterie in UE risulta più che doppio rispetto a quello cinese, con buona pace di qualche politico che vorrebbe attirare in patria le sole fasi di assemblaggio finale degli autoveicoli. L’Europa, inoltre, si trova in ritardo anche nel campo delle infrastrutture di trasporto. Nell’ultimo decennio, gli investimenti in questo settore sono diminuiti del 14%, mentre sono aumentati del 45% negli Stati Uniti e sono triplicati in Cina. Questo ritardo si riflette anche nel campo delle nuove tecnologie, come il cloud computing e l’intelligenza artificiale, dove l’Europa ha perso il treno delle tecnologie avanzate, rimanendo marginale sul mercato globale.

Draghi evidenzia anche come l’Europa non sia finora riuscita a creare un ecosistema favorevole alla crescita delle startup e del venture capital, la cui dimensione finanziaria complessiva è ancora una volta frammentata e ridotta, essendo solo un quinto di quella USA, con la conseguente incapacità di generare “unicorni” in grado di competere sui mercati globali. Il sistema finanziario europeo, inoltre, è troppo “bancocentrico”, con un’eccessiva dipendenza dalle banche locali per il supporto alle imprese, che evitano con ciò la disciplina e la trasparenza della quotazione in borsa. Questa struttura perpetua l’inefficienza e non consente un adeguato accesso a fonti di capitale diversificate, limitando ulteriormente la crescita delle imprese.

Emerge il quadro di un’Europa che sta sempre più perdendo la capacità di innovare e di investire in settori strategici per il futuro. Se non si interviene con piani ambiziosi e coordinati, il rischio è che il continente perda ulteriormente terreno, compromettendo non solo la propria competitività economica, ma anche la sicurezza e l’indipendenza strategica. Non saranno tuttavia piani finanziari d’emergenza come NextGenEU, di cui il nostro PNRR è la traduzione nazionale, a risolvere il problema della mancanza strutturale della necessaria base istituzionale finanziaria – e quindi anche fiscale – per la costruzione di “beni pubblici europei”, come sempre più sono la difesa, la sicurezza, l’indipendenza energetica, la massa critica sulle nuove tecnologie digitali e biologiche. Chi oggi, magari opportunisticamente, applaude Draghi non può pensare di mettere il carro di ulteriore debito pubblico europeo davanti ai buoi di un indispensabile assetto istituzionale di tipo federale, unica forma realisticamente in grado di supportare fiscalmente e politicamente tali scelte di investimento, sia tramite un profondo riassetto e semplificazione dell’eccesso di regolamentazione centrale e nazionale, sia attraendo - anche dall’estero – i capitali finanziari e umani necessari a questa colossale sfida strategica per il futuro del continente.

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