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A Bruxelles

Perché l'agenda Draghi è una sveglia anche per gli investitori italiani

Stefano Firpo

Il rapporto dell'ex premier evidenzia tutti i nervi scoperti che rischiano di far affondare l'Unione europea: sarà necessario attuare misure urgenti, specialmente in Italia, dove serve maggiore liquidità per stimolare la partecipazione di tutti gli operatori finanziari più importanti

Un conto è leggere il rapporto Draghi, un altro è capirlo. La cosa che più sorprende in positivo del Rapporto è la sua “boldness”, ovvero il coraggio di dire le cose come stanno, evidenziando i ritardi, i compromessi, le incoerenze con cui l’Europa e i suoi Stati membri – ovvero i governi nazionali – si sono mossi finora, con una trazione più intergovernativa che comunitaria, per cercare di stare al passo con le sfide competitive di oggi. Se vogliamo essere bold e superare i tanti ritardi evidenziati nel Rapporto che ci condannano a una progressiva irrilevanza e declino, dice Draghi, sono necessari quasi 800 miliardi di investimenti annui in Europa per colmare il gap tecnologico e di sviluppo competitivo con USA e Cina, per incrementare le spese per la difesa, per rendere più sicuri e a buon mercato gli approvvigionamenti energetici e molti altri obiettivi da cui dipende la competitività europea e la difesa del suo modello di welfare. L’Italia rappresenta circa il 20% del PIL europeo quindi nel nostro Paese occorre mobilitare almeno 150 miliardi di investimenti aggiuntivi nei prossimi anni. L’Italia investe ogni anno poco meno di 400 miliardi (circa il 20% del PIL) questo significa aumentare ogni anno i nostri investimenti di quasi il 40%. Un obiettivo ambizioso ma non del tutto irraggiungibile.

       

Come fare? Il Rapporto Draghi sottolinea chiaramente che incentivi fiscali per sostenere gli investimenti privati sono indispensabili per colmare l’investment gap accumulato. Insomma, la politica industriale migliore a sostegno della competitività coniuga grandi investimenti comuni per beni pubblici europei con strumenti di incentivazione a livello nazionale ben strutturati e calibrati. Poiché il rafforzamento della competitività passa per un aumento della produttività (la così detta “TFP”) è essenziale una corretta allocazione degli investimenti verso impieghi nei settori che stanno sulla frontiera tecnologica e che possono attivare maggiori spillover. Quindi non solo più investimenti ma più investimenti di qualità in grado di aumentare produttività e valore aggiunto prodotto dall’impiego di capitale. In Italia la quantità di investimenti ha sempre contribuito alla crescita del Pil, tuttavia, questo sforzo di investimento non ha saputo generare incrementi nella produttività dei fattori determinando negli ultimi 20 anni nel settore manifatturiero un paradossale andamento divergente fra investimenti e dinamica della TFP. Ciò significa più incentivi agli investimenti in innovazione, tecnologia, digitale, decarbonizzazione, startup, ricerca e sviluppo, e meno incentivi a pioggia a tutela di questa o quella micro-categoria; significa meno incentivi all'edilizia o all'agricoltura e più incentivi su energia, semiconduttori, manifattura avanzata, spazio: insomma, più Transizione 5.0 e meno ZES o Superbonus; significa anche meno incentivi al credito bancario, più incentivi alla patrimonializzazione e alla quotazione.

Il Rapporto sottolinea infatti che sarebbe meglio non contare troppo sull’intermediazione bancaria per sostenere questo tipo di investimenti poiché negli ultimi 20 anni il credito bancario ha prodotto molta misallocazione del capitale finanziando le cose più sicure, con meno propensione al rischio e all'innovazione, occorre invece sviluppare il mercato dei capitali rivedendo semmai la regolamentazione prudenziale delle banche per renderle meno avverse al rischio. Prioritario è quindi rilanciare la Capital Markets Union: ridurre la frammentazione dei mercati dei capitali europei, costruire una autorità di supervisione centralizzata potenziando l’ESMA, lavorare ad un TUF europeo, ridurre la dispersione delle pratiche di vigilanza queste sono le indicazioni del Rapporto per porre rimedio ai fattori che hanno finora impedito lo sviluppo del mercato dei capitali europei condannandolo ad un crescente marginalizzazione. Per quanto riguarda il rilancio del mercato dei capitali in Italia, vedremo dove ci porterà la riforma del TUF che dovrebbe, sulla scia dei primi interventi di semplificazione varati con la legge Capitali, continuare a ridurre gli oneri di accesso e permanenza sulla Borsa e spingere la convergenza del nostro sistema di regole verso un allineamento con quelli più competitivi a livello internazionale. La situazione infatti è emergenziale. La Borsa italiana sta letteralmente scomparendo. Fra delisting e spostamenti su altre piazze il nostro listino si sta prosciugando con una perdita cumulata di capitalizzazione di centinaia di miliardi in accelerazione negli ultimi anni. Occorrono interventi urgenti su più fronti perché anche la riforma più ambiziosa del TUF non sarà da sola in grado di invertire questa tendenza. 


Occorre agire ad esempio sul fronte degli investitori e portare più liquidità sul nostro listino migliorando la partecipazione e l’attivismo di tutti i nostri investitori istituzionali: fondi pensione, casse previdenziali, assicurazioni, asset manager. Ad oggi l’industria dei nostri investitori si comporta in modo estremamente passivo investendo appena il 3-4% dei risparmi assicurativi e previdenziali degli italiani sulla Borsa italiana e contribuendo ad alimentare un massiccio deflusso di capitali dal nostro Paese a vantaggio di altre economie. Non si tratta di invocare misure sovraniste ma di rendere questa industria più capace di essere attiva sul mercato dei capitali italiani e di professionalizzarsi. Occorrono riforme coraggiose tese soprattutto ridurre la spaventosa frammentazione dei fondi e delle casse, spingendo un processo di consolidamento delle masse gestite. Da maggiori masse scaturirebbero anche maggiori rendimenti rendendo assai più sostenibile il nostro sistema pensionistico. Un conto è leggere il rapporto Draghi, un altro è capirlo.

 

Stefano Firpo, direttore di Assonime