Transizione energetica
Come distinguere buone proposte da luoghi comuni quando si parla di risposte sul clima
L'Agenzia internazionale dell'energia pone obiettivi difficilmente raggiungibili: le fonti rinnovabili crescono, ma non sostituiranno mai i combustibili fossili
Lo spirito di Mario Draghi e del suo rapporto sulla competitività europea aleggiavano sull'evento laterale del programma del G7 a Presidenza italiana, organizzato in collaborazione con la IEA (International Energy Agency) dedicato al costi della transizione e che si è tenuto nei saloni della Banca d’Italia. Già la scelta è particolare: la Banca d’Italia come luogo e il ministro Giorgetti come anfitrione insieme al governatore Banca d’Italia Fabio Panetta. Assenti sia il ministro dell’Ambiente e dell’Energia sia quello dell’Industria. E invece una sfilza di banchieri, agenzie internazionali, economisti. Focus sulla parte strutturale della transizione: costi, impatti macroeconomici, competitività, rapporto fra Nord e Sud del mondo. Tanto per cominciare solo la prima sezione di discussione dedicata all’impatto macroeconomico della transizione si è occupata di capire quali ne sono gli effetti su crescita, inflazione, produttività, investimenti, prezzi delle commodity, catene di approvvigionamento e materiali critici.
La novità più importante è venuta dal Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, che nella sua introduzione ha avanzato un’idea, consapevole che oggi solo il 15% degli investimenti dedicati alla transizione va ai paesi del Sud del mondo che rappresentano invece un terzo del Pil mondiale e i 2/3 della popolazione. Ha proposto di istituire un incentivo mondiale “Global Carbon Reduction Incentive” (GCRI) in forza del quale i paesi con emissioni pro capite già alte finanziano i paesi con emissioni più basse. La proposta, alquanto nuova, rientra nel filone della carbon tax, ma con un elemento incentivante e virtuoso in più spingendo ogni singolo paese da una parte a contribuire alla transizione se con emissioni alte e dall’altra ad assumere comportamenti virtuosi. Il resto del dibattito ha mostrato un problema di fondo che ha reso tutta la discussione vagamente surreale.
La regia dei contenuti è stata chiaramente dettata dall’AIE e dal suo studio “NZE 2050”. Vale a dire come arrivare a zero emissioni nette nel 2050, tenendo conto del bilancio fra nuove emissioni e capacità di assorbimento da parte dei sistemi naturali. Ma siccome nessuno al mondo crede che gli obiettivi stabiliti nello scenario della AIE possano nemmeno lontanamente essere raggiunti, giusto per dare un’idea il carbone dovrebbe scendere del 90% mentre continua a crescere anno su anno e l’anno scorso ha fatto il record con 8,5 miliardi di tonnellate, e le emissioni passare da 8 tonnellate pro capite a 0,5, tutta la discussione ha avuto un tono vagamente surreale. Abbiamo sentito vantare i progressi fatti da Danimarca e Portogallo nello sviluppo delle rinnovabili, insieme fanno la popolazione di Lombardia e Piemonte, o ascoltare il rappresentante della BEI parlarci della prossima indipendenza energetica del Kenya grazie sempre alle rinnovabili, un paese dove i diversi black out quotidiani sono la regola, come in tutta l’Africa. Il fatto è che se riunisci tutte queste importanti istituzioni, ma le fai rappresentare da coloro che si occupano esclusivamente di sostenibilità e che ormai costituiscono un circolo autoreferenziato, ascolterai sempre i soliti discorsi.
È toccato al vostro cronista ricordare alcuni incontrovertibili fatti, completamente assenti nel dibattito e che l’AIE continua a far finta di non vedere. Primo: i consumi di combustibili fossili continuano a crescere e con essi le emissioni. Secondo: le fonti rinnovabili crescono molto, e questo è un bene, ma sono aggiuntive e non sostitutive dei fossili. Nel 2023 i consumi totali di energia sono cresciuti del 2% e di questa crescita solo lo 0,4 è stato fornito dalle rinnovabili e l’1,6% dai fossili. Quattro volte tanto. In Cina, il paese che installa da solo tanto eolico e tanto solare quanto il resto del mondo, il loro contributo aggiuntivo nel 2023 è stato di 1/5 rispetto a quello dei fossili. Terzo: con il sole e con il vento si fa elettricità e l’elettricità è solo un quinto dei consumi totali di energia. E il resto? Quarto: come si pensa di fare fronte all’immensa richiesta di energia che viene da India, Africa, Sudamerica? Solo con sole e vento? E da dove verranno le decine di migliaia di miliardi necessari ad avere, in quelle parti del mondo, reti elettriche adeguate? Temi su cui la conferenza ha sorvolato, isolandosi nell’irrilevanza. Formidabile poi la risposta di alcuni ai quesiti posti.
La responsabilità sarebbe delle compagnie oil and gas che vogliono fare profitti. Come se i produttori eolici e solari invece lavorassero pro bono. Il fatto è che pur in presenza di costi delle rinnovabili assai bassi, che teoricamente le dovrebbero favorire nel mercato, le fonti fossili presentano vantaggi, densità e programmabilità innanzitutto, che soprattutto i paesi poveri e con reti poco sviluppate preferiscono di gran lunga, come dimostrano i casi di India e Cina. Questa incapacità degli scenari di riduzione delle emissioni di fare i conti con le fonti fossili che ancora rappresentano l’80% dei consumi totali di energia mostrano una debolezza concettuale e strutturale enorme. Scarsa anche l’attenzione per altre tecnologie, a cominciare dall’energia nucleare che rappresenta per caratteristiche l’unica risposta valida al carbone. Le uniche due novità importanti in questo dibattito alla fine vengono da due italiani. Da Mario Draghi, che ha ricordato nel suo rapporto il principio della neutralità tecnologica e della capacità di mantenere l’Europa competitiva, e da Fabio Panetta la cui proposta si spera incontri orecchie più attente di quelle di questo convegno.