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L'analisi

Il Piano casa per i lavoratori è la nuova sfida di Confindustria

Dario Di Vico

Alle imprese manca la manodopera e allora che si fa? Si offrono abitazioni ai dipendenti. I casi di Atm e Fecs Group e i piani del presidente Orsini. Ma non è così semplice

Casa e lavoro sta diventando un’abbinata sempre più centrale nelle politiche dell’occupazione in Italia. Dove e come abitano i lavoratori è decisivo per le scelte di ingaggio della manodopera e lo è per una serie di motivi diventati tra loro convergenti. In primo luogo, soprattutto nell’ambito dell’occupazione nei servizi, sono dirimenti i costi dell’abitare nelle grandi città e quelli legati all’eventuale trasferimento del neo-assunto. Il caso più conosciuto è quello dell’Atm di Milano da mesi alle prese con la difficoltà di inserire negli organici autisti disposti a farsi carico di uno spostamento in città, con tutto quello che ne consegue in termini di maggiorazione dei costi dell’abitare e più in generale della vita.

Ma il nodo casa è anche decisivo per organizzare quelle politiche dell’accoglienza che tutti reputano necessarie per far fronte alle difficoltà di trovare operai da parte delle grandi e medie imprese, ormai a tutti i livelli dell’inquadramento e non solo nelle fasce specializzate come un tempo. Fortunatamente nel mondo politico c’è un sostanziale accordo sul fatto che nei prossimi anni vadano organizzati crescenti flussi di neo-lavoratori stranieri per poter garantire alle fabbriche del nord di poter rinnovare gli organici e continuare senza strappi la loro attività e la spinta in questa direzione da parte di imprese e associazioni è molto forte. Ed è servita a silenziare anche quelle voci del centrodestra più inclini a farsi sentire in termini propagandistici e nazionalistici sui temi dell’immigrazione.

Già l’anno scorso Confindustria Veneto Est, una delle più grandi organizzazioni territoriali di impresa, aveva cominciato a ragionare sul patrimonio edilizio esistente e sulle abitazioni da rendere disponibili per favorire i flussi di extracomunitari di cui sopra. Il tutto con il coinvolgimento della regione Veneto (a conduzione leghista) e di Cassa Depositi e Prestiti. La designazione alla testa dell’associazione come prossimo presidente di Paola Carron, di matrice Ance, non potrà che accelerare l’iter e facilitare la ricerca di soluzioni.

In attesa di piani più strutturati e complessi il tam tam segnala aziende che hanno adottato o vogliono adottare il fai-da-te. I bergamaschi di Fecs Group (recupero e trattamento dell’alluminio) sono un piccolo caso di scuola perché le case per i nuovi dipendenti le hanno addirittura costruite: 36 alloggi a 700 metri di distanza dallo stabilimento di Ciserano, tutti concessi in locazione a canone moderato. “Questo progetto ha richiesto un investimento di tre milioni di euro – hanno dichiarato i responsabili dell’azienda – ma è stata la carta che ci ha permesso di non dover cambiare continuamente personale. Altre soluzioni in giro non ce n’erano”. Le notizie dai territori del nuovo triangolo industriale insistono su singole imprese che si stanno muovendo nella stessa direzione, in particolare nell’industria casearia del Piacentino con lo scopo di dare un tetto ai lavoratori stranieri.

A conferire maggiore impatto però a questi sforzi, tutto sommato ancora isolati, sarà il neo-presidente di Confindustria nazionale, Emanuele Orsini, che sin dalle sue prime sortite ha parlato di un vero e proprio Piano Casa da implementare mettendo attorno a un tavolo tutta una serie di soggetti istituzionali e privati. Nell’assemblea di domani con tutta probabilità Orsini tornerà sull’argomento e il dossier su cui sta lavorando prevede un doppio passaggio. La richiesta al governo di inserire un provvedimento di defiscalizzazione proprio per aiutare le imprese a cercare/trovare abitazioni per i nuovi assunti e un’operazione di architettura finanziaria che dovrebbe prevedere la creazione di un Fondo centrale e di altri fondi periferici a livello di singoli distretti industriali. Orsini conta molto sull’aiuto del governo per far partire questi programmi ma bisognerà vedere i tempi e ovviamente le disponibilità di cassa.

Parlare di Piano Casa evoca immediatamente per assonanza quanto si fece nell’immediato Dopoguerra in Italia su spinta di Amintore Fanfani. Un programma esteso a tutto il territorio nazionale che aveva molti obiettivi: rilanciare l’edilizia, assorbire disoccupati e dare un’abitazione alle famiglie a basso reddito. Le differenze con quel tempo sono evidenti e un nuovo Piano Casa avrebbe un arco di obiettivi (e numeri) sicuramente più limitato ma comunque anche solo un’istruttoria sul tema dimostra che si tratta tutt’altro che una passeggiata. L’architetto Stefano Boeri – anche ai tempi di Fanfani i professionisti diedero un importante contributo di idee – ha messo in guardia gli imprenditori dal riproporre vecchi schemi ideologici che rischierebbero di prevedere quartieri-ghetto abitati solo da operai come ai tempi dei Crespi o dei Pirelli. Meglio diluire nella città esistente la presenza dei nuovi lavoratori.

Il modello è Vienna che ha saputo distribuire il mix sociale. Un secondo nodo riguarda la necessità di evitare una concorrenza impropria nella ricerca della casa. Ci sono 600 mila famiglie che aspettano una casa popolare e bisogna scansare il rischio di creare conflitti, che inevitabilmente ridividerebbero quel fronte politico che oggi sembra miracolosamente unito. Infine la formula di finanziamento dell’operazione che autorizza le migliori speranze è quella dell’housing sociale che in Italia non ha ancora attecchito come all’estero e che vede realizzazioni di successo solo a Milano e in qualche località del nord. Come prezzo di affitto l’housing sociale dovrebbe collocarsi a metà tra le case popolari e il libero mercato delle abitazioni – quindi abbordabile – e in scarsità di risorse pubbliche dovrebbe permettere di mobilitare capitali privati che siamo abituati a definire come “pazienti”. Gli stessi a cui con tutta probabilità farà appello Orsini per tentare di quadrare il cerchio.

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