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L'analisi

L'Ue non si salva spendendo di più, serve altro. Capire davvero il rapporto Draghi

Guido Tabellini

Le 400 pagine del rapporto dell'ex premier sulla concorrenza non parlano solo degli aspetti finanziari e di investimenti, ma contengono un’analisi dettagliata delle cause reali del ritardo tecnologico europeo: al vecchio continente serve trovare una strategia per tornare a essere protagonista

Nel commentare il rapporto Draghi sul futuro della competitività europea, l’attenzione dei media italiani e internazionali si è soffermata su un punto in particolare: per affrontare le sfide tecnologiche e geopolitiche che ha davanti, l’Unione europea (Ue) dovrebbe investire circa 800 miliardi in più ogni anno, quasi il 5 per cento del suo reddito aggregato. È una cifra enorme, pari a più di un terzo del reddito nazionale italiano. Poiché il settore privato difficilmente sarà in grado di fornire queste risorse, una parte sostanziale dovrebbe venire da investimenti pubblici, possibilmente finanziati anche con debito europeo. Non sorprendentemente, la reazione negativa di influenti politici tedeschi non si è fatta attendere. Ma è vero che sono necessari così tanti investimenti aggiuntivi, e per raggiungere quali obiettivi? Per rispondere, è utile un confronto con il paese all’avanguardia tecnologica. Nel 2024, l’Ue investirà un po’ più degli Stati Uniti, non meno (22,4 per cento del reddito nazionale contro 21,8 secondo il Fondo monetario internazionale). Come è sottolineato in uno studio recente dello Iep (Università Bocconi) a cura di Gros, Mengel e Presidente, per recuperare il ritardo tecnologico rispetto agli Stati Uniti, l’Ue non ha bisogno di più investimenti, ma di cambiarne la composizione: oggi l’Ue investe molto di più degli Stati Uniti in costruzioni e in macchinari, ma quasi la metà nei settori dei “prodotti intangibili” (prodotti intellettuali, software, investimenti in informazione e comunicazione).
 

Quali sono le cause di questa diversa composizione degli investimenti? Secondo il rapporto Draghi, la causa principale è l’inefficienza dei mercati finanziari europei, troppo frammentati e bancocentrici, che non convogliano gli abbondanti risparmi europei verso le iniziative imprenditoriali più innovative e dirompenti. Non c’è dubbio che il mercato dei capitali europei possa essere migliorato, e il rapporto Draghi contiene numerosi e importanti spunti su come farlo. Ma la causa principale degli scarsi investimenti “intangibili” dell’Ue non è la mancanza di risorse, bensì la sua specializzazione settoriale: l’Ue è specializzata in settori tradizionali, come l’automobile, mentre l’alta tecnologia e i settori digitali sono localizzati soprattutto negli Stati Uniti. Questa diversa specializzazione, a sua volta, riflette cause reali, non finanziarie, come la legislazione del mercato del lavoro, la regolamentazione, la frammentazione del mercato unico europeo, la politica industriale, la complementarietà e le esternalità tra imprese localizzate nella stessa area geografica.
 

In altre parole, il problema principale non è che il capitale investito nei settori “intangibili” ha un costo più alto nell’Ue che negli Stati Uniti, ma che il suo rendimento è molto più basso. Secondo lo studio Iep sopra citato, negli Stati Uniti i margini di profitto delle industrie ad alta tecnologia sono in media circa il 7 per cento più alti che nelle industrie tradizionali, nell’Ue questa differenza è di circa il 2 per cento. A conferma di ciò, più dell’80 per cento degli investimenti in venture capital delle grandi imprese europee (che non hanno difficoltà a reperire finanziamenti) sono localizzati negli Stati Uniti. La vera sfida dell’Europa negli anni a venire non è tanto di reperire le risorse necessarie a finanziare un incremento degli investimenti, bensì come aumentare la convenienza a investire nei settori “intangibili” anziché in quelli tradizionali. E, nota bene, il rapporto Draghi contiene molti spunti importanti e tutt’altro che ovvi su come raggiungere questo obiettivo.
 

I circa 800 miliardi all’anno di investimenti aggiuntivi citati nel rapporto Draghi non vengono solo dall’esigenza di aumentare la capacità innovativa dell’Europa. Circa il 60 per cento sono investimenti in infrastrutture, trasporti e tecnologie “verdi” per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni entro il 2030, formulati nel Green deal europeo. Questa cifra a sua volta si basa su stime della Commissione europea, che il rapporto non esamina in dettaglio né scompone in progetti specifici. Presumibilmente, la maggior parte di questi investimenti “verdi” sarebbe a carico del settore pubblico, direttamente o tramite sussidi. Ma qui sorge un altro problema. È difficile immaginare che i governi nazionali o la Commissione Europea abbiano la capacità di gestire investimenti pubblici aggiuntivi di questa portata. Come ricordato dallo stesso rapporto Draghi, il Piano Marshall ha comportato investimenti annuali aggiuntivi per 1’1-2 per cento del reddito, ed era un periodo in cui l’Europa stava uscendo dalle distruzioni della guerra. Se davvero l’Ue o i suoi stati membri riuscissero a trovare le risorse per finanziare un incremento degli investimenti pari a circa il 5 per cento del reddito, cosa difficilmente immaginabile, il settore pubblico non sarebbe in grado di gestirne una frazione rilevante, ed è quasi certo che vi sarebbero ritardi, inefficienze, sprechi ed episodi di corruzione.
 

Le 400 pagine del rapporto Draghi non parlano solo degli aspetti finanziari e di investimenti. Il rapporto contiene un’analisi dettagliata e approfondita delle cause reali del nostro ritardo tecnologico, e formula numerose e importanti proposte perché l’Europa torni ad avere un ruolo da protagonista nell’innovazione. È questa la parte più rilevante e coraggiosa del rapporto, non la quantificazione degli investimenti aggiuntivi necessari o le proposte su come finanziarli. È un peccato che l’attenzione e i commenti si siano soffermati sulla quantificazione fornita nel rapporto degli investimenti aggiuntivi, e non sulle tante altre proposte innovative e cruciali discusse nel rapporto. Anche perché, oltre a essere poco convincente, la raccomandazione di arrivare a investire quasi il 5 per cento del pil in più all’anno, in parte finanziandosi con debito pubblico europeo, è politicamente controproducente. Speriamo che questa raccomandazione non fornisca scuse ai politici europei per mettere il rapporto in un cassetto e fare come se nulla fosse.