(foto Ansa)

L'editoriale del direttore

Salari, innovazione, concorrenza. La svolta di Confindustria passa dalla leadership del partito del pil

Claudio Cerasa

Quali sono le svolte necessarie che viale dell'Astronomia deve saper compiere per non cadere nella gran trappola della lagna

Meno lagne, più futuro. C’è una nuova Confindustria che si presenterà questa mattina a Roma, alle 10.30, all’Auditorium Parco della Musica, e c’è una nuova Confindustria che dovrà tentare di dimostrare di essere l’opposto rispetto a quello che appare: un corpo solido, strutturato, armonico, ma incapace di sfruttare la sua energia, la sua potenzialità, le sue risorse per correre, per esistere e per mostrare una direzione ambiziosa che non sia, come si dice in questi casi, la semplice sommatoria di piccoli interessi di bottega. C’è una nuova Confindustria che si presenterà questa mattina a Roma e la nuova Confindustria guidata dal nuovo presidente Emanuele Orsini avrà due strade di fronte a sé: utilizzare la propria potenza di fuoco per muoversi sulla scacchiera della politica come il sindacato delle imprese, limitandosi cioè a presentare al governo la lista della spesa di ciò che chiedono le imprese italiane, o utilizzare la propria forza per scartare, per osare e per aggredire, con il suo corpaccione, non solo i tabù che riguardano le imprese ma anche i tabù che riguardano l’Italia, l’Italia economica.

 

Si diceva un tempo che le priorità delle imprese sono anche le priorità dell’Italia, e quest’affermazione vale ancora oggi e vale sempre. Si potrebbe dire però che in una stagione in cui le imprese, seppur con qualche inciampo, corrono, esportano, si rinnovano, innovano, le priorità di chi rappresenta l’industria italiana dovrebbero e forse potrebbero cambiare e dovrebbero essere finalizzate, forse, a raggiungere nuovi obiettivi, a dettare una nuova agenda al centro della quale meriterebbe di esserci un concetto più forte: provare a far crescere l’Italia con la stessa velocità con cui crescono le imprese e mettere il peso che possono esercitare le imprese al servizio di una nuova agenda per il paese. Una Confindustria con gli attributi, con le big balls direbbero a Londra, è una Confindustria in grado di martellare, e nel caso anche di sfiduciare, la classe politica non solo quando si tratta di parlare di sussidi, di cuneo fiscale, di incentivi alle imprese ma anche quando si tratta di ragionare sui grandi vizi del paese: scarsa innovazione, debole concorrenza, bassa produttività, poca attenzione al capitale umano. Non serve la lista della spesa, non serve raccontare tutto quello che sognano di ottenere le territoriali, serve concentrarsi su pochi punti, cruciali, senza i quali non c’è futuro, senza i quali non c’è crescita, senza i quali non c’è l’Italia dei sogni. Tre punti su tutti: efficienza, concorrenza, produttività. Serve questo, alla Confindustria del futuro, e servirebbe disperatamente essere, per usare un’espressione che qualcuno ha usato in ambiti diversi, il punto di riferimento fortissimo di tutti coloro che si  sentono appartenere al partito del pil. Il 20 settembre, tra pochi giorni, il governo inizierà a mettere mano al Piano strutturale di bilancio, il Psb, un piano la cui gittata riguarderà non i prossimi sette mesi ma i prossimi sette anni, e Confindustria dovrebbe cominciare a muoversi da capofila del partito del pil, avrebbe forse già avuto il dovere di farlo, mettendo insieme quattro al massimo cinque proposte con cui provare a condizionare l’agenda dell’Italia nei prossimi sette anni.

 

Poche proposte, con tutte le associazioni di categoria, pochi punti condivisi, poche chiacchiere, pochi voli pindarici, e traduzione trasversale e concreta di una parola messa giustamente al centro da Draghi nel suo rapporto a Ursula von der Leyen: competitività. Cosa vuol dire essere competitivi? E soprattutto cosa vuol dire avere un paese che non è in grado di innovare, che non è in grado di scommettere sull’innovazione? Si potrebbe partire da qui, per provare a dettare una nuova agenda al paese, come si dice, per provare a essere il pivot del partito del pil, per provare a dare un contributo vero, non retorico, per innovare l’Italia. Dall’innovazione, appunto. Qualche numero, da cui si potrebbe partire, per inquadrare il tema. Nel 2023 la quota dedicata dall’Italia alla ricerca e allo sviluppo è scesa ancora e ha toccato quota 1 per cento del pil. Una quota distante rispetto all’obiettivo fissato dall’Unione europea (3 per cento) e particolarmente distante dalla quota raggiunta nel 2022 da Germania e Francia (3,5 per cento la prima, 2,5 la seconda). Gli investimenti in startup e Pmi innovative, i cui investimenti nel 2023 si sono dimezzati rispetto al 2022, oggi sono a quota un miliardo di euro contro i due miliardi dell’anno precedente. I volumi di investimento in venture capital sono ormai una frazione (un quinto, un decimo) di quelli del Regno Unito, della Francia, della Germania e anche della Spagna. Stesso discorso sull’intelligenza artificiale: nel 2023, l’Italia ha investito solo 131 milioni di venture capital nell’IA, a fronte di 2,1 miliardi investiti in Germania e 2 miliardi in Francia. Serve questo alla Confindustria del futuro. Serve trovare la voce per provare a indicare una nuova direzione al paese e serve avere il coraggio di sfidare un altro tabù che riguarda il mondo delle imprese italiane: i salari. Senza competizione non c’è futuro. Senza concorrenza non c’è innovazione. E senza salari più alti semplicemente non c’è speranza. Fino a oggi, il mondo delle imprese italiane ha spesso scelto la strada facile del taglio del cuneo fiscale per poter indicare la via giusta per mettere più soldi in busta paga ai lavoratori. Le tasse in Italia sono alte, è vero, la pressione è insostenibile, i datori di lavoro pagano un obolo senza senso, certo, ma tutto questo non basta. Per chi guida le imprese, oggi, è arrivato il momento di chiedere non solo alla politica qualcosa per le imprese, per il loro sviluppo, ma è arrivato il momento di chiedere alle stesse imprese di fare qualcosa di più per i propri lavoratori. Un investimento sui salari, un investimento sugli stipendi, sulla propria manodopera, nella consapevolezza che è tutto vero: mancano i lavoratori, mancano le competenze, i cervelli scappano, ma se tutto questo succede è anche perché i salari nelle imprese potrebbero e dovrebbero crescere di più.

 

Una Confindustria che ha il coraggio di guardare al futuro deve passare da qui, dalla consapevolezza della propria forza ma anche dei propri limiti, dalla necessità di combattere contro il falso mito del piccolo è bello, e dalla volontà di mettere a fuoco i tabù che riguardano le imprese italiane, ricordando per esempio che l’aumento della produttività è direttamente proporzionale alla grandezza delle imprese, che la spesa privata in ricerca e sviluppo in Italia è più bassa di quella di Francia e Germania nonché della media dei paesi avanzati, che in Italia vi è, come segnalato da anni da Bankitalia, una formazione interna alle aziende spesso inadeguata, anche nell’uso delle nuove tecnologie, e che tutti questi problemi, come detto anni fa da Ignazio Visco, “riducono la domanda di lavoro qualificato, generando un circolo vizioso di bassi salari e modeste opportunità di impiego”. Meno lagne, più futuro. La capacità di essere il pivot del partito del pil, per Confindustria, passa anche da qui. In bocca al lupo.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.