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Editoria

I numeri e l'aspirazione “slow” di Tortoise, che punta al mitico Observer

Cristina Marconi

L’effervescenza del mercato mediatico britannico offre un nuova operazione di rilancio commerciale: una realtà editoriale basata su giornalismo lento e podcast unisce le forze con il giornale domenicale più antico al mondo, per risollevarsi da un bilancio in rosso e conquistare il pubblico

Tutto cambia nella scena editoriale britannica. Dopo lo Spectator, è un’altra gloriosa e antica testata britannica ad essere in predicato di diventare il fiore all’occhiello di un nuovo polo mediatico, questa volta embrionale e progressista: The Observer, che ha trovato nel sito di “slow news” Tortoise Media uno spasimante pronto a mettere 25 milioni di sterline per un’operazione di rilancio editoriale e commerciale nei prossimi cinque anni. Un rilancio che aiuterà anche Tortoise a rafforzarsi e a distribuire i suoi prodotti di reale successo, che non sono gli articoli ma i podcast, a un pubblico più ampio, magari, si spera, americano

                                                    


Giornale della domenica più vecchio al mondo, nato nel 1791, Observer è parte del Guardian Media Group dal 1993, e confluisce sullo stesso cliccatissimo sito senza paywall. Da parte sua, Tortoise è un’avventura editoriale nata nel 2019 da un’idea di James Harding, ex enfant prodige alla guida del Times ed ex direttore di Bbc News, e di un gruppo di intraprendenti e danarosi amici, come l’ex ambasciatore americano a Londra all’epoca di Obama, Matthew Barzun, e Katie Vanneck-Smith, che aveva lasciato il posto da presidente di Dow Jones per imbarcarsi nell’avventura, salvo poi diventare amministratore delegato di Hearst Uk nel 2022. Sebbene con la pandemia Tortoise avesse già raggiunto 50 mila abbonati, i conti negli ultimi tempi non sono stati brillanti: un rosso di 4,6 milioni di sterline registrato nel 2022, in aumento del 45 per cento in un anno. In totale, in tre anni le perdite sono state pari a 16,3 milioni. Il settore che invece ha avuto una bella crescita è stato quello dei podcast, con ricavi in aumento del 63 per cento in un anno grazie anche a una formula su abbonamento, e quello dei forum e degli eventi. Insomma, la promessa di dedicarsi a lunghi articoli ragionati è stata soppiantata da un’attenzione crescente verso il mondo dell’audio, con i suoi podcast che farebbero 3 milioni di download al mese e una serie di idee in corso di sviluppo per la televisione, come documentari ma anche film. I titoli più famosi di questa conversione, resa possibile da un aumento di capitale di 10 milioni, sono la serie di Londongrad, di Paul Caruana Galizia, o Sweet Bobby, di Alexi Mostrous, che racconta un clamoroso caso di furto d’immagine


Il target sono le donne giovani, niente true crime, l’America è un mercato potenziale in cui il brand ha già iniziato ad affacciarsi, la qualità britannica piace, come sa bene Sir Marshall, che si è appena comprato lo Spectator e sogna di fare altrettanto con il Telegraph per aprire il suo polo mediatico conservatore alle due sponde dell’Atlantico. Con l’Observer la faccenda è opposta, e speculare: George Orwell definì la testata “il nemico del nonsense” e l’idea è continuare a pubblicare il giornale la domenica e costruire la versione digitale, su cui far confluire anche i podcast e gli articoli di Tortoise. Dopo una fase preliminare, i negoziati sono passati a una tappa ulteriore, esclusiva. Gli investitori sono David Thomson, presidente di Thomson Reuters, Lansdowne Partners e Local Globe, ma nessuno ha il controllo. Ai tempi del  Times e prima di uscire dalle grazie di Rupert Murdoch, fu Harding ad applicare il paywall al sito del giornale per evitare che la testata morisse. Era il 2010, il giornalismo era in piena battaglia per la sopravvivenza, nel suo pragmatismo Murdoch ha badato ai soldi. Harding ha cercato di sfuggire ai problemi fondando una nuova testata – l’hanno fatto in tanti, in tutto il mondo – e ora punta a un brand glorioso, con 70 giornalisti e, secondo gli ultimi dati del 2021, 136 mila copie a settimana: magari un po’ meno slow e già ben saldo nell’immaginario di chi compra i giornali
 

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