chi paga?

Il non detto del Piano Straordinario di Edilizia di Confindustria

Luciano Capone

Il presidente degli industriali chiede un intervento, con supporto del governo, per costruire case per i neoassunti. Ma la fiscalità generale serve a dare un tetto a chi non ce l'ha, non ad abbassare il costo del lavoro delle imprese

Nella sua prima relazione da presidente di Confindustria, Emanuele Orsini ha presentato all’assemblea uno dei progetti qualificanti del suo programma: un “Piano Straordinario di Edilizia per i lavoratori neoassunti”. L’obiettivo è appunto quello di ridurre il costo dell’affitto, o più in generale dell’alloggio, che è diventato uno dei principali ostacoli per le imprese per trovare nuovi occupati. Come dovrebbe funzionare? “L’idea è di costituire un tavolo congiunto che coinvolga anche l’Ance, l’Anci, le assicurazioni, le banche, la Cassa depositi e prestiti, i fondi immobiliari e i fondi pensione, per studiare insieme le migliori formule di garanzie finanziarie, così da consentire a fondi pazienti di poter attuare i progetti garantendo un canone sostenibile”.

Detto così il progetto è tanto ampio quanto vago, e soprattutto non risponde a una banale domanda: chi paga? La risposta alla domanda non è diretta, ma è intuibile quando il presidente di Confindustria dice di essere in contatto con il governo. “Ringrazio la Presidenza del Consiglio e tutto il governo – ha detto Orsini – con cui sono già in corso le interlocuzioni per valutare tutti gli aspetti connessi all’attuazione del progetto e alla sua fiscalità”. Fiscalità generale, viene da precisare. Perché il punto è proprio questo. Se l’idea di Confindustria fosse quella di rilanciare progetti di edilizia per i dipendenti, non ci sarebbe alcun problema. Come non ci sarebbe alcun problema se a fare questi progetti fossero “capitali pazienti” che hanno obiettivi sociali, come ad esempio le fondazioni bancarie.

Ma il problema, come ha ben sintetizzato Mario Seminerio sul blog Phastidio analizzando la proposta, è che “se ci mettiamo a fissare l’importo dell’affitto e poi cerchiamo di convincere alcuni possessori di capitale a diventare pazienti, (i.e. a perdere soldi rispetto ad alternative che di solito perseguono per oggetto sociale) significa che o quelle iniziative non vedranno mai la luce oppure che serviranno soldi pubblici per la differenza”. E qui torniamo alla “fiscalità” di cui sopra. Non c’è dubbio che l’edilizia popolare – o l’housing sociale, come va di moda chiamarlo adesso – possa essere qualcosa su cui lo stato debba investire. E non c’è dubbio che in passato, si pensi al Piano Ina-casa di Fanfani, queste politiche abbiano accompagnato l’industrializzazione del paese, fornendo un’abitazione a chi dal sud emigrava dove c’era lavoro. Ma una seria riflessione sulle politiche abitative andava forse fatta all’inizio del triennio appena concluso in cui l’Italia ha speso 220 miliardi in bonus edilizi per rifare la casa – e anche la seconda casa – a chi un’abitazione già ce l’aveva.

Anziché sostenere e difendere strenuamente il Superbonus, la Confindustria avrebbe potuto proporre in alternativa il suo “Piano Straordinario di Edilizia per i lavoratori neoassunti”. Ma c’è poi un altro problema, che riguarda la redistribuzione delle risorse pubbliche. Per uno stato, l’obiettivo dell’edilizia popolare è dare un tetto a chi è troppo povero per potersene pagare uno, che è cosa molto diversa da fornire una casa ad affitto calmierato per i neoassunti dalle imprese (quali? e dove?). I due insiemi possono in parte coincidere, nel senso che un neoassunto con famiglia e figli può essere nelle condizioni di avere diritto a un alloggio sociale. Ma non è affatto detto che i due insiemi si sovrappongano.

Perché i due insiemi sono l’oggetto di due politiche diverse: la prima ha un obiettivo sociale e di equità (dare un tetto ai poveri), la seconda ha un obiettivo industriale (aiutare le imprese a trovare manodopera). Le imprese potrebbero però affrontare questo problema semplicemente aumentando i salari: spesso, quando non si trovano lavoratori, una soluzione è pagarli di più. Se gli affitti sono alti, certamente vuol dire che bisogna aumentare l’offerta di abitazioni. Ma questo non spetta necessariamente al governo. Esiste, appunto, il mercato. La richiesta al governo che ci si aspetterebbe dagli industriali, ma dagli imprenditori più in generale, è quella di rimuovere tutti gli ostacoli burocratici che da un lato aumentano il costo dell’affitto – si pensi all’inefficacia della normativa sugli sfratti – e dall’altro impediscono alle imprese di costruire nuovi immobili e palazzi laddove c’è mercato.

L’impressione, invece, è che le categorie produttive pensino agli interventi pubblici nell’edilizia come all’ennesima misura indiretto per tenere basso il costo del lavoro. Un caso ancora più eclatante di quello di Confindustria è la recente richiesta di Coldiretti al governo di fare un nuovo Superbonus “per chi ristruttura i fabbricati rurali per trasformarli in alloggi” allo scopo di – udite, udite! – “contrastare il caporalato offrendo un alloggio ai lavoratori direttamente vicino all’azienda”. Così, con i soldi dello stato si trasforma un rudere o una stalla in un’abitazione o un condominio, di proprietà dell’imprenditore agricolo, che potrà far alloggiare i braccianti, magari trattenendo dal salario il costo dell’affitto.

Le politiche abitative dovrebbero servire esclusivamente per dare un tetto a chi non ce l’ha e a quest’obiettivo, eventualmente, subordinarne altri. Per ridurre il costo del lavoro ci sono già altri strumenti, peraltro già adottati dal governo, come il taglio del cuneo fiscale.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali