Europa
Non i soldi, ma la politica industriale è il centro del rapporto Draghi
Il vero focus della proposta dell'ex premier non è acquisire nuove risorse, ma utilizzare quelle già esistenti in maniera diversa. L'obiettivo è arrivare a una vera integrazione europea su automotive, economia e commercio marittimo
La proposta presentata da Mario Draghi alla Commissione europea o non è capita o la si vuole “sterilizzare” per riportarla alla moda italiana degli ultimi anni. Tutti i commentatori si soffermano sul profilo del debito comune (i famosi 800 miliardi all’anno che l’Unione europea dovrebbe raccogliere per finanziare la competitività verso Cina e Stati Uniti). In Italia importa non tanto come vengono usate queste risorse, ma che siano disponibili possibilmente gratis o a condizioni molto favorevoli: un paese che da anni non si preoccupa dell’uso delle risorse ha un debito pubblico altissimo e dove ormai dell’ordinamento europeo rileva solo il principio di solidarietà e non le regole sulla libera circolazione e sulla concorrenza che rappresentano il vero fondamento del diritto dell’Unione.
Questa italica lettura in chiave Pnrr è stata, infatti, subito criticata dal Ministro tedesco delle finanze Lindner, che non ha esitato a osservare che il problema non è la disponibilità delle risorse finanziarie dal momento che nel mercato ve ne sono a sufficienza e a costo non molto diverso da quello di un’emissione comune (anche se è ovvio che Lindner può permettersi di prendere quella posizione perché per la Germania il denaro costa sensibilmente meno).
Il vero punto della proposta Draghi non è, quindi, costituito dall’acquisizione delle risorse, ma dal loro utilizzo: e cioè da come questi 800 miliardi annui che l’Unione cercherebbe (il cosiddetto “debito buono” per usare le parole di Draghi) saranno impiegati per promuovere crescita e competitività. Più precisamente, non sarà una operazione tipo Next Generation Eu (o Pnrr), dove gli stati membri usano debito europeo – seppure nel quadro di un controllo generale della Commissione europea – per finanziare le proprie imprese e infrastrutture. Si tratta, invece, di un regime diverso: in virtù del quale la decisione su dove investire verrà presa da un organo comune (la Commissione europea assistita, ad esempio, da un comitato in rappresentanza degli stati) in considerazione dell’interesse comune europeo e della competitività delle imprese interessate. Ecco la rivoluzione, per essere chiari! E un livello di integrazione europea: la costruzione di una politica comune.
Se l’obbiettivo è la competitività quali saranno, anzitutto, i comparti dove c’è ancora spazio per un fronte comune europeo contro America e Cina? Ad esempio, sull’intelligenza artificiale la sensazione è che l’Europa possa dire la sua solo come mercato di destinazione, ma non certo dal punto di vista scientifico-tecnologico. Probabilmente, invece, l’Europa può svolgere un ruolo significativo coordinando una politica comune di sostegno del traffico marittimo, dal momento che quattro delle cinque grandi imprese mondiali di traffico hanno la loro sede in diversi paesi europei (Francia, Svizzera, Danimarca e Germania oltre all’Italia) e solo una in Cina. Una spinta a questo comparto nel quadro di una politica di collaborazione fra pubblico e privato, presupponendo un più maturo rapporto fra politica industriale e politica della concorrenza, forse è decisiva.
Sull’automotive, con l’Italia ormai fuori gioco, Francia e Germania possono forse svolgere ancora un ruolo anche se il declino di Volkswagen non aiuta e la sfida cinese si fa sempre più pericolosa. Nella difesa già emergono misure comuni che valorizzano la collaborazione fra imprese francesi, italiane, greche e spagnole riunite in una alleanza. E così via.
Ma una volta scelti i settori occorre verificare quale azienda e quale territorio realizzano meglio l’interesse comune. Inoltre, è centrale una politica economica comune fatta anche di misure di protezione (golden power, anti dumping e anti sovvenzioni) e di promozione da adottare a livello europeo.
Insomma, il rapporto Draghi introduce un obbiettivo molto ambizioso: una vera e propria rivoluzione! Una politica industriale integrata non più nazionale che determini l’azzeramento di ogni profilo di concorrenza fra i paesi membri. Insomma, come si dice in sintesi, “oltre il mercato unico” per una “politica industriale comune” guidata dal centro seppure con il coinvolgimento dei singoli stati.