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La missione quasi impossibile di fermare la corsa della spesa pubblica

Lorenzo Borga

Il governo Meloni ha deciso che tra il 2025 e il 2031 la spesa pubblica netta dovrà crescere al più dell’1,5 per cento all’anno, ma la sfida sarà ancora più complicata di quanto era un tempo, a causa degli esborsi legati a pensioni e sanità

Il destino dei conti pubblici, e dunque delle tasse pagate dai contribuenti e dei servizi finanziati dallo stato, è stato deciso. Ma la notizia è rimasta sottotraccia, occultata dalle polemiche del giorno e dalle invettive della politica. Del suo ce ne ha messo anche il governo che, come nella migliore delle tradizioni, del Piano strutturale di Bilancio (il documento che conterrà i saldi di finanza pubblica per il prossimo settennato) ha pubblicato appena un comunicato stampa. E così la notizia è rimasta tra gli addetti ai lavori, mentre avrebbe meritato (e forse, sperabilmente, lo avrà) tutt’altra eco e livello di dibattito. Il governo Meloni ha deciso nella sostanza di fermare la corsa della spesa pubblica. Tra il 2025 e il 2031 la spesa pubblica netta dovrà crescere al più dell’1,5 per cento all’anno. La traiettoria non considera la spesa per il rimborso degli interessi sul debito, le uscite una tantum o legate al ciclo economico (per esempio in caso di crisi) ed esclude anche i fondi provenienti dall’Unione europea. Fuori dai tecnicismi, ciò significa che la spesa pubblica reale – cioè al netto dell’inflazione – dovrà rimanere ferma al palo al livello odierno. O addirittura scendere, se il rincaro dei prezzi dovesse attestarsi sul 2 per cento annuo, obiettivo di medio-termine della Bce.

 

Tutta un’altra storia rispetto a quanto fatto finora. L’ultima volta che l’Italia ha mantenuto un livello così basso di aumento della spesa pubblica nominale era il 2017, a capo del governo c’era il cauto Paolo Gentiloni che impose la legge di Bilancio più prudente dai tempi della crisi del debito sovrano. Da allora tutti gli esecutivi, anche prima della pandemia, non mantennero sotto controllo la spesa pubblica tanto quanto punta a fare oggi il governo Meloni. Rispetto al pre Covid la spesa pubblica – interessi sul debito esclusi – è cresciuta di oltre 250 miliardi di euro: rispetto al reddito nazionale, la spesa è prevista tornare ai livelli precedenti a pandemia e bonus edilizi solo nel 2026. Nel frattempo, l’incremento medio annuo è stato superiore al 6 per cento. Quattro volte l’1,5 a cui punta il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, anche tenendo conto che il nuovo punto di riferimento per i conti pubblici sarà più clemente che in passato, dal momento che escluderà dal computo anche i fondi europei e le spese una tantum.

 

I problemi sono già evidenti guardando all’anno prossimo: per finanziare il taglio dei contributi e dell’Irpef anche nel 2025 il governo deve trovare una decina di miliardi di euro, se vuole tenere fede al percorso di riduzione del debito previsto nel Piano strutturale.
E la sfida sarà ancora più complicata di quanto era un tempo. La crisi demografica che impone una crescita di assegni pensionistici e visite e trattamenti ospedalieri è solo peggiorata rispetto al 2017. L’Inps allora gestiva meno di 200 miliardi di euro all’anno di assegni, mentre nel 2024 questa cifra sfonderà quasi quota 250: il 25 per cento in più. E la corsa non è finita: se il picco sulle pensioni non arriverà prima del 2040, nel prossimo triennio la spesa pensionistica aumenterà in media di quasi il 3 per cento all’anno, il doppio dell’obiettivo medio del governo. Età media più alta significa di pari passo incremento della spesa sanitaria.

 

Anche in questo caso il ministero dell’Economia ha stimato fino al 2027 un incremento annuo ben superiore al punto e mezzo scritto nel Piano strutturale. E dal conto mancano i finanziamenti che di anno in anno vengono aggiunti in legge di Bilancio per tappare i buchi della rete ospedaliera. Tutto questo non può che avere un solo significato: per compensare gli esborsi obbligati su pensioni e sanità, le altre voci di spesa dovranno dimagrire o addirittura subire dei tagli. Se non in termini nominali, almeno tenendo conto del rincaro annuo dei prezzi.

 

Le nuove regole fiscali europee sembrano destinate a generare una curiosa eterogenesi dei fini. Il centrodestra eletto per abolire la riforma Fornero, introdurre (almeno gradualmente) una flat tax, portare le pensioni minime a quota 1.000 euro dovrà introdurre le più decise misure di contenimento della spesa pubblica, o di incremento delle entrate, dell’ultimo decennio. Ma non tutti sembrano averlo compreso. Nemmeno nella stessa maggioranza che si appresta a votare il Piano strutturale di Bilancio.