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Scenari

Come rendere l'Italia attrattiva? Non demonizzando la possibilità di fallire

Nicola Rossi

Gli investimenti esteri sono una grande risorsa per le imprese tecnologiche del nostro paese, ma bisogna essere in grado di cogliere l'occasione per utilizzarli al meglio

Che un appuntamento internazionale si associ ad una vera e propria missione commerciale non deve stupire. E questo sembra essere il caso del viaggio negli Stati Uniti della Presidente del Consiglio italiana. Ricevere dalle mani di Elon Musk il Global Citizen Award ed incontrare poi l’amministratore delegato di Alphabet o quello di Open AI o di Motorola sono, fin troppo chiaramente, non solo attività con un risvolto politico o mondano ma anche, se non soprattutto, tasselli di una strategia intesa a portare in Italia investimenti esteri in settori tecnologicamente avanzati. E di ciò non possiamo che rallegrarci.

Ciò premesso, non dovremmo mai dimenticare che gli innovatori di ieri (e certamente, per molti versi, Elon Musk lo è, il che non vuol dire che non possa continuare ad esserlo) sono gli imprenditori alla ricerca di protezione di oggi. L’attività di innovazione distrugge prodotti, mercati, competenze e posti di lavoro per crearne di nuovi ed in misura spesso e volentieri superiore. Ma quando ciò accade, gli outsider diventati leader di mercato tendono, spesso, a proteggere in maniera tutt’altro che innovativa le loro posizioni. È poi così sorprendente che l'amministratore delegato della Tesla manifesti le proprie simpatie per quell’uomo politico che promette di impedire, con le buone o con le cattive, alle auto elettriche cinesi di invadere il mercato americano? In questo senso, è positivo fare quanto necessario per portare in Italia gli investimenti di questa o quella “big tech” ma il nostro principale cruccio, oggi, dovrebbe essere quello di far sì che in Italia nascano o si collochino soprattutto gli investitori di domani e non solo quelli di ieri.

Questa difficoltà nel comprendere che le politiche per l’innovazione riguardano solo marginalmente l’esistente e, se sono veramente tali, si rivolgono soprattutto a ciò che ancora non c’è, è diffusa. È presente, ad esempio, anche nel Rapporto Draghi ed è tipica di letture – come dire? – burocratiche della realtà. In altre parole, oltre ad aprire le porte agli insediamenti dei leader di mercato, dovremmo soprattutto porre le condizioni per attrarre l’iniziativa di chi già oggi sta lavorando – in un laboratorio o in uno scantinato – all’Intelligenza Artificiale di domani o di dopodomani. È questo diffuso dinamismo che fa la differenza fra gli Stati Uniti e l’Europa o l’Italia. Sotto questo profilo siamo indietro molto più di quanto non si possa immaginare.

Ci stracciamo le vesti un giorno sì e un giorno no per l’inverno demografico che stiamo attraversando e che minaccia di durare a lungo, ma non c’è nessuno che faccia osservare che, oltre alle culle anche i capannoni sono vuoti e che da vent’anni muoiono ogni anno più imprese di quante ne nascano. I due fenomeni sono connessi – le società che invecchiano tendono meno a fare impresa – ma nel caso italiano le negative tendenze del dinamismo imprenditoriale vanno ben oltre quanto sarebbe implicito nelle tendenze demografiche. E se l’innovazione nasce in primo luogo non solo (e forse non tanto) nelle imprese esistenti ma anche (e forse soprattutto) nelle imprese che potrebbero esserci, diventa allora facile comprendere perché la produttività totale dei fattori in Italia continua a languire e anzi arretrare tanto rispetto ai paesi dell’Europa continentale quanto rispetto all’Europa allargata per includere la periferia, per non parlare del Regno Unito e degli Stati Uniti. E perché lo stesso fenomeno si registri per l’attività brevettuale.

Per fare solo alcuni esempi. A questo punto, molti lettori si aspetteranno che anche queste righe snocciolino l’usuale rosario: mancano i fondi di venture capital, il peso della fiscalità è eccessivo, la giustizia è una tartaruga, la burocrazia è opprimente. Tutte problematiche incontrovertibili. Ma prima di tutto questo è necessario che qualcuno, da un podio autorevole, dichiari che il suo principale proposito è fare in maniera che, a Trento come a Lampedusa, gli italiani possano liberamente provare, possano fallire, possano farcela e godere dei frutti del loro successo e, anzi, invitarli a farlo. Ripetendolo fino alla noia e facendo seguire alle parole gli atti. Solo qualche settimana fa, il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (un organo in buona misura di emanazione sindacale) si è opposto a che, nell’insegnamento dell’Educazione Civica, trovasse posto l’apprendimento del valore dell’impresa individuale e dell’iniziativa economica privata.

La cosa non ha trovato un eco particolare nei media: abbiamo trovato assai più interessanti le imbarazzanti vicende di un esponente di governo. E si deve solo alla determinazione del Ministro dell’Istruzione se le linee guida dell’insegnamento, nella loro versione finale, fanno riferimento esplicito allo “spirito di iniziativa e di imprenditorialità” e alla “valorizzazione dell’iniziativa economica privata”. Istituzioni più adeguate, strumenti più idonei, norme più sofisticate, risorse più abbondanti non basteranno a fare dell’Italia il paese dinamico e innovativo che vorremmo che fosse, se noi tutti non cesseremo di guardare con sospetto e con riluttanza al cambiamento, alla competizione, al rischio, alla intrapresa.

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