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Campioni europei da costruire

Il caso Commerzbank è una finestra sui benefici dell'unione bancaria    

Salvatore Rossi

Le recenti mosse di Unicredit in territorio tedesco confermano l'importanza di un sistema capace di connettere fra loro gli istituti di credito europei in modo solido e vantaggioso, oltre a tutelare il mercato da un eccessivo ricorso ai fondi pubblici: ma la strada è ancora in salita, specialmente dopo l'ostruzionismo di Scholz

L’Unione bancaria europea esiste nominalmente da dieci anni. Alcuni commenti recenti ad alcune parti dei rapporti Draghi e Letta, e da ultimo alla vicenda Unicredit-Commerzbank, hanno fatto pensare che quell’Unione debba essere ancora creata. Questo è falso nella forma, ma è vero nella sostanza. Prendiamo la dichiarata intenzione di Unicredit di acquisire una quota importante della banca tedesca Commerzbank. Quest’ultima era finita sull’orlo del fallimento ai tempi della crisi finanziaria globale, quindici anni fa. Era stata “salvata” dal governo tedesco del tempo, che ne aveva acquisito il controllo. Non fu l’unica banca di quel paese a essere oggetto di un salvataggio pubblico, l’intero sistema bancario tedesco stava tremando, perché si era esposto molto più dei sistemi di altri paesi (ad esempio di quello italiano) ai prodotti finanziari tossici diffusi dalle banche americane.

 

                     

 

Scoppiò in Europa la crisi cosiddetta del debito sovrano, che appuntò l’attenzione dell’opinione pubblica dei paesi nordici sulle debolezze istituzionali e finanziarie di alcuni paesi del sud, in primis della Grecia. Alcune banche di quei paesi, fra cui quattro banche italiane medio-piccole, entrarono in difficoltà, non legate ai prodotti tossici della crisi finanziaria globale ma a problemi di cattiva gestione interna. Fu allora ideata l’Unione bancaria europea, di fatto edificata su due pilastri: l’unificazione delle vigilanze nazionali e quella delle regole sui fallimenti di banche. Quest’ultima era il vero obiettivo dell’operazione. 


Fu fatto passare il principio del bail in al posto del bail out. Cioè una banca in difficoltà poteva essere salvata solo dall’interno, a opera dei suoi azionisti e creditori, e non dall’esterno, in particolare dallo Stato del paese in cui essa aveva sede. Si disse: un salvataggio inceppa il meccanismo della concorrenza, evitando che un’azienda malgestita esca dal mercato, come è invece necessario affinché i suoi clienti siano costretti a passare a un’azienda concorrente meglio gestita. Questo è vero in generale, si aggiunse, indipendentemente dall’origine dei fondi che intervengono a salvare l’azienda, ma se poi i fondi provengono, anziché da privati volenterosi, dal bilancio di uno Stato fortemente indebitato, allora al peccato anticoncorrenziale se ne aggiunge un altro più grave contro l’equilibrio finanziario pubblico, quindi è doppiamente bene vietare per legge un simile scempio.     

L’uso di fondi pubblici, siano essi nazionali o comunitari, va vietato in modo assoluto, senza eccezioni. Quello di fondi privati può essere consentito in poche e rilevanti eccezioni, segnatamente allorché ci si trovi di fronte al rischio grave di un contagio sistemico. Ma con una velenosa avvertenza: la rilevanza sistemica di un’intermediario in difficoltà dev’essere certificata ex ante da un organismo tecnocratico comunitario (creato ad hoc nell’ambito del sistema di vigilanza unica), essenzialmente sulla base della dimensione e dell’articolazione internazionale. Ignorando bellamente che in un mercato come quello bancario fondato sulla fiducia dei depositanti un panico generalizzato può diffondersi anche a partire da una banca piccola e locale. Era evidente il fatto che la ragione dell’intervento legislativo europeo non fosse questa soave e ingenua teoria neoliberista, ma preoccupazioni di politica internazionale discendenti dai timori che i salvataggi bancari con denaro pubblico potessero estendersi dalla Germania, che vi aveva fatto così ampio ricorso solo un paio d’anni prima, anche a paesi finanziariamente più squilibrati come l’Italia e richiedere alla fine il ricorso al denaro degli stessi contribuenti tedeschi.     

Questa è l’Unione bancaria europea così com’è stata concepita finora. Un modo ipocrita, neanche tanto celato, di difendere i presunti interessi tedeschi. Non, come sarebbe stato logico attendersi, come il modo di favorire la creazione in Europa di un vero mercato integrato del credito e della finanza, tra l’altro promuovendo fusioni fra soggetti nazionali per dar vita a veri soggetti multinazionali europei, in grado di combattere ad armi (quasi) pari con i giganti americani e cinesi


La storia Unicredit-Commerzbank è davvero esemplare. È totalmente assurdo, si direbbe inconcepibile, che un governo s’immischi in un’operazione di mercato fra soggetti entrambi quotati in una borsa valori. Per di più coi toni duri usati dal cancelliere Scholz. Per di più se il governo in questione sta definitivamente uscendo dall’azionariato di uno dei due soggetti, in cui era entrato quindici anni fa (quindici!), con puri intenti di salvataggio, per restituirlo del tutto al mercato. Per di più in un mercato fortemente regolamentato, in cui l’interesse pubblico è presidiato da un’apposita autorità europea indipendente dai governi. Al tempo stesso, tutto questo è perfettamente concepibile in un Europa in cui l’unione bancaria è nata con le premesse che abbiamo sinteticamente raccontato. Il velo dell’ipocrisia è stato squarciato. Dunque l’unione bancaria europea è ancora tutta da costruire. Dovrà esserlo, pena la fatale regressione delle banche europee nell’agone internazionale. E siccome le banche forniscono alla loro economia il nutrimento finanziario di cui essa abbisogna, questa sarebbe un’altra spinta al declino dell’economia europea.