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Le imprese di domani

Il Rapporto Draghi traccia la via anche per le startup. E va seguita

Stefano Firpo

Le modifiche proposte dal governo creano più complicazioni che altro. Dal documento dell'ex premier emerge la necessità di interventi strutturali di ampio respiro europeo, capaci di stimolare le iniziative imprenditoriali più innovative, coinvolgendo università e ricerca e sburocratizzando le procedure

Innovazione, tecnologia, ricerca e startup: questi sono i generatori di produttività su cui dovrebbero orientarsi i nostri investimenti. Lo ha messo in evidenza con forza il Rapporto Draghi e lo ha sollecitato la stessa Confindustria per bocca del suo neopresidente Emanuele Orsini al suo esordio in assemblea.

Nel 2012 il governo Monti – su iniziativa del ministro  dello Sviluppo economico Corrado Passera – varò un provvedimento in favore delle startup italiane. L’intervento aveva il pregio di dare visibilità a un nuovo mondo imprenditoriale, allora ancora piuttosto sconosciuto in Italia, iniziandolo a sostenere con un corpus organico di norme tese alla semplificazione burocratica, all’incentivazione degli investimenti in equity, alla sperimentazione di norme giuslavoristiche (e di diritto fallimentare) che hanno anticipato quelle in seguito introdotte dal Jobs Act. Da allora in Italia le startup si sono sviluppate e il mercato del Venture Capital ha iniziato a muovere i primi passi anche grazie ai fondi pubblici gestiti da Cassa Depositi e Prestiti che hanno contribuito a far crescere e far nascere diversi fondi specializzati.

 

                             


Si tratta ora di lanciare una nuova stagione di supporto “strutturale” a questo mondo. Perché siamo ancora in ritardo. Recentemente il governo, nel disegno di legge sulla concorrenza, ha avanzato alcune (piuttosto strampalate) proposte di modifica normativa della legge sulle startup. Si tratta di interventi di respiro davvero angusto, tesi più a complicare che a semplificare (ad esempio incrementando, per non si sa quale ragione anti abuso, a 20 mila euro il capitale sociale di una startup – con effetti discriminatori rispetto ad una normale Srl - e obbligandole ad assumere almeno un dipendente).


Occorre fare cose con un’ambizione e una prospettiva ben diverse e occorre farlo presto. Servirebbe ad esempio stimolare le nostre università a trasformare la tanta ricerca e attività di brevettazione che già oggi promuovono con qualità in iniziative imprenditoriali (con più inventori che diventano imprenditori); attrarre anche i fondi di Venture Capital esteri a operare e fare più scouting in Italia; costruire un mercato unico delle startup europee in modo che esse possano operare e fare business ovunque in modo semplice e veloce e rendere più agevole l’accesso, la sburocratizzare e la gestione degli strumenti di incentivazione europea a partire da Horizon e da quelli dell’European Innovation Council e del Fondo europeo per gli investimenti, facendogli anche lavorare in modo più sinergico.


Nel senso di un intervento strutturale appunto, il Rapporto Draghi suggerisce di partire da una definizione unica di startup europea su cui costruire, come fatto in Italia nel 2012, un corpus di norme utili a facilitarne in ogni modo lo sviluppo competitivo. Vittorio Colao, proseguendo sulla stessa linea, ha proposto sulle pagine del Sole 24 Ore, uno statuto e una identità digitale unici per le startup e le scale up europee che permettano loro di operare in tutti i 27 paesi dell’Ue. 


Le premesse di contesto ci sono tutte. Con il regolamento Eidas 2, ora legge nei 27 stati membri, l’identità digitale delle imprese come delle persone diventa obbligatoria e non più facoltativa. Anzi, gli stati dovranno provvedere fornendole gratuitamente e poi potranno decidere se lasciare che anche il mercato faccia la sua parte come avvenuto con lo Spid. Insomma il quadro normativo abilita queste scelte. Speriamo che la politica non ci lasci indietro.

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