Nel Palazzo di Herrenhausen gli operai della IG Metall davanti alla tribuna dei manager, l’uno accanto all’altro, preoccupati (foto Getty) 

La Golf non si accende più. La crisi della Volkswagen affonda nella storia

Stefano Cingolani

I sindacati, il Land della Bassa Sassonia, gli eredi. Tre paesi, Boemia, Germania e Austria. Tre città, Stoccarda, Wolfsburg, Salisburgo. Due famiglie, Porsche e Piëch, in lotta per decenni

Il potere dei sindacati, il consociativismo della Bassa Sassonia, gli eredi di Ferdinand Porsche sempre più numerosi che cominciano a chiedersi fino a quando varrà ancora la pena costruire automobili. Sono i protagonisti del dramma Volkswagen sul palcoscenico di una Germania che deve cambiare il proprio modello e non sa come. L’immagine degli operai in tuta con le bandiere rosse della IG Metall davanti alla tribuna dei manager seduti l’uno accanto all’altro, preoccupati, ansiosi più che sorpresi o meravigliati, fa subito venire in mente la domanda cruciale: chi comanda? La Porsche Automobil Holding che fa capo alle famiglie Porsche-Piëch detiene il 34 per cento delle azioni e poteri di voto del 53,3 per cento nel gruppo, il quale, a parte la Volkswagen, possiede Audi, Seat, Skoda, Lamborghini, Bugatti, Ducati, Bentley e naturalmente Porsche. Il 20 per cento delle quote è in mano al Land della Bassa Sassonia che ha un forte potere di veto, perché in base a quella che viene chiamata legge Volkswagen, approvata nel 1960 e più volte emendata, occorre l’80 per cento per ogni decisione più importante. Quando poi si tratta di gestione del personale a decidere è il consiglio di sorveglianza con una maggioranza dei due terzi e lì in base alla legge sulla Mitbestimmung, la cogestione, i rappresentanti dei lavoratori hanno la metà dei seggi. Dunque, la minaccia di ricorrere a migliaia di licenziamenti fino alla chiusura di uno stabilimento per far fronte alla crisi di vendite (e non solo di auto elettriche) deve passare sotto le forche caudine del sindacato. “C’è del marcio a Wolfsburg” si è lamentato più volte il capo del fondo sovrano norvegese, il più ricco al mondo, che ha investito nel gruppo automobilistico. Ma il marcio affonda nella storia.

 

La minaccia di ricorrere a migliaia di licenziamenti fino alla chiusura di uno stabilimento per far fronte alla crisi di vendite. “C’è del marcio a Wolfsburg”

  

“La Volkswagen è dei sindacati, questa è la verità”, ha proclamato Berthold Huber già capo della IG Metall, a lungo consigliere della Volkswagen. E spiega: “Le risorse per creare la fabbrica che doveva produrre l’auto del popolo, decisa da Adolf Hitler in persona, provenivano dal patrimonio dei sindacati che i nazisti sequestrarono e poi espropriarono nel 1937 per affidarlo al Daf (Deutsche Arbeitsfront il “fronte del lavoro” ispirato alle corporazioni mussoliniane). Non si può dimenticare tutto ciò – insiste – senza tradire l’identità dell’azienda. La Volkswagen è speciale, non ha nulla a che vedere con nessun’altra impresa industriale”. La verità è che quello spirito corporativo dal quale è nata è cambiato nella forma, non nella sostanza, nonostante le vicende anche drammatiche attraverso le quali è passata “la fabbrica del Maggiolino”.

   

Tre paesi, Boemia, Germania e Austria. Tre città, Stoccarda, Wolfsburg, Salisburgo. Due famiglie, Porsche e Piëch, o meglio una famiglia divisa in due e in lotta per decenni. Tre personalità di spicco, Ferdinand il progettista, e i due figli: Louise la donna d’affari, forte e determinata, Ferry il sognatore che esce dall’ombra solo quando il padre muore. Su tutto questo la cappa nera del nazismo, gli inglesi, i francesi, i sindacati, la Germania di Bonn, l’unificazione tedesca, l’America, la Cina. Non manca nulla alla saga teutonica, tra intrighi, colpi di scena (su chi abbia davvero inventato il Maggiolino è ancora in corso una gara fatta di furbizie e bugie), scandali come il “Diesel Gate” (l’azienda ha nascosto che i motori a gasolio inquinavano oltre i limiti di legge), un primato a lungo inseguito che ora può sfuggire di mano. Non sarebbe la prima volta: negli anni 80 la Volkswagen stava dietro alla Fiat. Consumato il clamoroso risultato del Maggiolino, per costruire un’altra vettura di massa a Wolfsburg hanno dovuto copiare la Fiat 127, come racconta Giorgetto Giugiaro, il geniale progettista italiano ingaggiato per dare alla luce la Golf. 

 

Ivan Hirst e lo sgangherato prototipo di quello che verrà poi chiamato Maggiolino. “Se vuoi costruire vetture così brutte, ragazzo mio, sei un folle”

  

“Di auto c’è bisogno; senza auto non si cresce; senza esportare auto non si esiste”: è il mantra di uno dei grandi capi del gruppo, Heinrich Nordhoff che ha guidato fino ad oggi il colosso delle quattro ruote; tuttavia nessuna delle tre sentenze è più una verità inoppugnabile. I giovani sono convinti di non aver più bisogno di possedere auto, le affittano quando servono. In Europa ne circolano persino troppe (570 ogni mille abitanti in media, ma 700 in Polonia, 681 in Italia, 586 in Germania). Le due transizioni parallele e convergenti, quella digitale e quella ambientale, fanno sì che le vetture di oggi continuino ad avere quattro ruote, ma non molto di più rispetto a quelle di fine secolo XX secolo. Il rapporto Draghi dipinge un futuro del tutto imprevisto fino a pochi anni fa: l’auto si fa digitale, ben più che elettrica, con un ruolo determinante dell’intelligenza artificiale.

Ma torniamo a Wolfsburg, quella città inventata, una città-fabbrica messa su in fretta e furia nel 1938, anti-vigilia della Seconda guerra mondiale, un dormitorio per gli operai  che dovevano costruire l’auto del popolo. Il nome originario era Stadt des KdF-Wagen e il compito di mettere a terra il progetto era stato affidato alla KdF, Kraft durch Freude (Forza attraverso la gioia) il dopolavoro del Deutsche Arbeitsfront che aveva preso il posto dei sindacati sciolti dal regime. Il progetto fu affidato all’ingegner Ferdinand Porsche di origine boema, il quale si ispirò alla V570 ideata addirittura nel 1925 dal magiaro Béla Barényi e costruita poi dalla Tatra, azienda cecoslovacca con un gran pedigree: era stata la terza azienda a fabbricare automobili in Europa dopo la Mercedes e la Peugeot. Nel 1934 al salone dell’auto di Berlino Ferdinand Porsche aveva sentito Hitler esclamare, davanti al padiglione della Tatra: “Ecco l’auto per le mie strade”. Quel piccolo modello compatto, con motore raffreddato ad aria, sembrava fatto apposta per diventare un simbolo del regime. Dopo aver guidato per anni la Daimler-Benz come direttore tecnico, Ferdinand aveva aperto uno studio di consulenza e sudava sette camicie su un progetto di vettura piccola e popolare. Con gran disappunto, apprese che il Führer aveva invitato nel suo appartamento berlinese Hans Ledwinka e suo figlio Eric, intimando loro di consegnargli i progetti che avrebbe poi girato a Ferdinand il quale si era anche iscritto al partito per fare carriera. Gli impianti nella Bassa Sassonia vengono costruiti con manodopera italiana graziosamente prestata da Benito Mussolini, ma pensando a River Rouge, lo stabilimento modello di Henry Ford, grande estimatore del nazismo. La vettura del popolo deve essere più maneggevole, più veloce e meno cara delle Ford, Hitler indica anche il prezzo base: mille marchi, equivalenti a 140 dollari di allora, la metà di una Ford B (oggi sarebbero appena cinquemila euro).

I monti Tatra e l’azienda che ne aveva preso il nome finiscono sotto il tallone nazista così come tutta la Cecoslovacchia, un anno dopo che il popolo austriaco aveva salutato entusiasta le SS in marcia per le vie di Vienna. Dopo la sconfitta tedesca quel che rimaneva della città della forza e della gioia, cambia nome in Wolfsburg ispirandosi a un antico castello nelle vicinanze. La fabbrica viene riaperta grazie a un ufficiale britannico, il maggiore Ivan Hirst il quale, inviato a liquidare gli impianti decide che potevano e dovevano rinascere. Abbandonato tra camion e kubelwagen, trova uno sgangherato prototipo di quello che verrà poi chiamato Maggiolino e lo presenta tutto eccitato a Lord Rootes, il magnate britannico dell’auto, il quale lo guarda schifato: “Se vuoi costruire vetture così brutte, ragazzo mio, sei un folle”, sentenzia. Sappiamo poi come è andata. La notizia che era stato Ledwinka ad aver ideato la Volkswagen negli impianti di Koprivnice, piace molto agli inglesi nel dopoguerra. E non solo: dopo una lunga querelle giudiziaria negli anni 60 la Tatra rinata sotto il regime comunista ottiene un risarcimento dalla Volkswagen.

Ferdinand avvia il figlio maschio, Ferry, al suo stesso mestiere, senza dargli molto credito né spazio, Louise ha mente e carattere per tenere le redini, ma è donna. Al suo fianco c’è il marito Anton Piëch, un avvocato viennese. Mentre le truppe alleate conquistano la Germania gli uomini Porsche sono tutti in Francia nel territorio di Vichy, a progettare la “voiture du peuple” per la Renault. Il 15 dicembre vengono imprigionati come criminali di guerra. Ferry è subito rilasciato, ma gli altri due rimangono in carcere a Digione fino all’agosto 1947, costretti a lavorare al progetto della Quattro Cavalli. 

La famiglia Piëch-Porsche torna al comando dopo un lungo esilio. Ferry e Anton ripartono dalla nicchia del lusso. La prima vettura, tutta costruita a mano, è in strada nell’inverno 1947. Grazie a Carlo Abarth, tornano alle corse con la 360 Cisitalia. La Volkswagen si riprende con i capitali del Land della Bassa Sassonia che ne diventa garante e azionista. I sindacati entrano con la legge sulla Mitbestimmung. Heinz Nordhoff, il nuovo capo della società, gira alla famiglia una quota di profitti per ogni Maggiolino, le materie prime e la rete di concessionari. Purché restino fuori dall’auto di massa. Ferry rivela i suoi talenti e tiene le redini di fatto fino al 1989 (muore il 27 marzo 1998). Il figlio Ferdinand Alexander detto Butzi, è al suo fianco da quando nel 1972 la compagnia debutta in borsa, con la garanzia che le famiglie Porsche e Piëch mantengano saldamente il controllo azionario. Ma non è affatto scontato.

Un ramo in Austria sotto lo sguardo aquilino di Louise a Zell am See, cittadina ai piedi delle Alpi sulle rive del lago, non lontano da Salisburgo, a gestire parte del patrimonio e organizzare feste in Lederhosen e Dirndl. Un altro a Stoccarda per fabbricare auto di lusso e mietere successi con la Porsche 907, mentre a Wolfsburg la Maggiolino diventa una vera cornucopia. Tutto va a gonfie vele fino al 1970 quando matura la rottura tra i cugini. I dissensi sulle strategie industriali si mescolano alle gelosie sentimentali. E qui entra in scena Ferdinand Karl, figlio di Anton Piëch e Louise Porsche. Nato a Vienna nel 1937, svezzato in Porsche fino al 1971, grazie al successo della 907 viene chiamato alla Audi, assorbita dalla Volkswagen per rilanciare il marchio destinato alla gamma alta del mercato. A quel punto scatta la scintilla amorosa tra Ferdinand e Marlene la moglie del cugino Gerd Porsche. Vanno a vivere insieme, hanno due figli, ma non si sposano. Finché Ferdinand non la lascia nel 1982 per impalmare Ursula ex governante di trent’anni più giovane. L’ingegner Piëch è sempre stato un uomo laborioso e timorato, l’unico eccesso il troppo amore per le donne. Non a caso ha messo al mondo 12 (alcuni sostengono 13) figli nati da quattro unioni diverse, alle quali va aggiunta una serie di avventure sentimentali. Quando nel 2012 fa entrare Ursula nel consiglio della Volkswagen il ramo Porsche della famiglia e gli altri azionisti insorgono temendo che voglia lasciare a lei le redini. 

Ferdinand aveva fatto una carriera folgorante grazie non solo alla parentela o ai modi imperiosi, ma anche alla sua conoscenza del mestiere. Il potente manager Carl Hahn nel 1993 lascia una Volkswagen piena di buchi, Piëch prende in mano il comando, la rilancia e viene incoronato salvatore. La faiblesse per il lusso, lo spinge a compiere passi più lunghi della gamba. Vuole togliere spazio a Mercedes e Bmw, così acquista Lamborghini e Bugatti, poi punta addirittura a Rolls Royce e Bentley. Una nuova battaglia d’Inghilterra che si risolve in un’altra débacle: prende Bentley, però gli viene negato il nome Rolls Royce. Piëch passa la mano, ma solo in apparenza. Dal consiglio di sorveglianza e come maggiore azionista, manovra la potente IG Metall e sfida il governo della Bassa Sassonia: cambiata la legge, può acquisire la maggioranza del capitale. Il Land punta i piedi, i sindacati reclamano la loro mercede. Poi c’è di mezzo Wendelin Wiedeking, l’uomo che ha ristrutturato e rilanciato la Porsche sul punto di essere venduta alla Toyota. 

  

“L’auto è morta”, proclama Ernst Piëch, l’emarginato che diventa profeta: “Non possiamo continuare a produrre questi ammassi di lamiera”

  

E qui arriviamo alla battaglia del capitale. Piëch è socio della Porsche, col 13 per cento delle azioni. Siede nel consiglio di amministrazione di Stoccarda, dove il presidente è il cugino Wolfgang Porsche e dove hanno un posto anche suo fratello Hans-Michel e i cugini Alexander e Hans Peter. Ernst, l’altro fratello di Ferdinand, ritenuto “inadatto”, negli anni Ottanta ha venduto in segreto le proprie quote e se ne è andato a produrre vino in Inghilterra. Nel 2005 Wolfgang si mette in testa di prendersi l’intera Volkswagen, ne compra prima il 20 per cento poi sale al 51 per cento nel 2008. Davide contro Golia anche se sono parenti (serpenti). “Se la taglia fosse importante i dinosauri sarebbero ancora vivi”, dichiara Wendelin Wiedeking, il manager che guida l’assalto per conto di Wolfgang Porsche. Il piccolo particolare è che non ha abbastanza soldi. Le banche avevano concesso una linea di credito da 35 miliardi di euro. Ma tutto precipita. Wolfgang annuncia di voler salire fino al 71 per cento. Il titolo della Volkswagen va alle stelle, ma è una fiammata. La Porsche ha speso 23 miliardi di euro per la scalata e ha un debito di 9 miliardi, mentre la grande crisi finanziaria s’è abbattuta anche sui suoi sogni di grandezza. Il 6 maggio 2009 i cugini s’incontrano a Salisburgo: Ferdinand vorrebbe che Porsche fosse venduta a Volkswagen che può contare su 10 miliardi di euro liquidi, Wolfgang punta alla fusione con l’entrata di un terzo investitore (l’emiro del Qatar lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani). Le due compagnie si integrano, Porsche resta autonoma, ma all’interno della galassia Volkswagen. La holding di famiglia diventa il socio numero uno. Ferdinand Piëch muore nel 2019 all’età di 82 anni. Wolfgang, 81 anni, chiamato WoPo, è il capo clan, cittadino austriaco, vive a Zell am See, è un tipo cordiale dai modi signorili sia quando indossa il frac sia quando in costume tirolese bada alle sue vacche; si è sposato tre volte, ha quattro figli, nel 2022 si è invaghito di Gabrielle Thyssen, principessina di Leiningen, ex moglie del quarto Aga Khan. Tutto bene quel che finisce bene? Il fatto è che non è finita. “L’auto è morta”, proclama Ernst Piëch l’emarginato che diventa profeta: “Non possiamo continuare a produrre questi ammassi di lamiera. Dobbiamo diventare verdi”. Il dinosauro è sopravvissuto, ma si è rivelato un colosso dai piedi di argilla.