Giuseppe Luraghi visse gli anni più importanti della Pirelli e rifondò l’Alfa, facendone un’azienda pubblica con chance di successo (foto Olycom)

La coscienza dell'industria italiana

Luraghi, il manager intellettuale che inventò la Giulietta

Entrò spesso in conflitto con i suoi azionisti pubblici e privati. Non una diffidenza antipolitica, ma un rispetto quasi religioso della competenza

Marco Ferrante

Dalla Linoleum all’Alfa Romeo, dai romanzi alle poesie. Poi la Civiltà delle Macchine con Sinisgalli. Storia anti ideologica di un socialdemocratico che credeva nella funzione civica dell’impresa

Scrisse molto Giuseppe Luraghi, molte decine di articoli e più di venti libri, caso insolito per un uomo d’impresa. Ha lasciato molte testimonianze, e ha espresso giudizi sulle cose che ha visto e gli uomini che ha incontrato. Gli spunti di riflessione politica abbondano soprattutto in “Incontri eccellenti”, nonostante sia un tradizionale libro di ritratti. Fu un uomo d’azione, un manager industriale (e non solo) di ispirazione socialdemocratica, si formò in una grande impresa del capitalismo privato e continuò nell’industria pubblica, senza pregiudizi per il primo né per la seconda. Questa doppia militanza fa di lui un uomo attuale. Perché la sua è una storia anti-ideologica. Dimostra, per esempio, che l’origine e la proprietà del capitale, pubblico o privato, non sono una condizione del successo di un’impresa: visse gli anni più importanti della Pirelli e rifondò l’Alfa Romeo, facendone per dieci anni un’azienda pubblica con chance di successo. Dimostra, per esempio, che tra management e azionista c’è sempre un pizzico di conflitto d’interessi, indipendentemente dalla natura dell’azionista. Pubblico o privato, l’azionista non sempre ha gli stessi obiettivi del suo management. 


Luraghi entrò in conflitto con i suoi azionisti privati – i Pirelli innanzitutto, ma anche il controverso Michelangelo Virgillito ai tempi di Lanerossi – e con i suoi azionisti pubblici, la Dc e le sue correnti, nella lunga stagione in Finmeccanica e all’Alfa Romeo. Con i Pirelli la frizione fu causata dal rifiuto dei due fratelli, Alberto e Piero, di conservare l’innovativa organizzazione aziendale scaturita dai due anni di guerra civile e liberazione, per ritornare alla struttura gerarchico-organizzativa precedente alla Seconda guerra mondiale. Sottotraccia fu anche uno scontro di potere, Luraghi voleva più autonomia, la famiglia voleva più controllo. Forse aveva ragione Luraghi, ma l’azienda non era sua e, con una consequenzialità che lui stesso riconosceva come assertiva, se ne andò. Grazie a Cesare Merzagora, suo amico ed estimatore, entrò nell’industria pubblica. Anche lì, conflitti e relativi saluti. Lasciò la direzione generale di Finmeccanica negli anni di Amintore Fanfani segretario della Dc. Riteneva che l’istituzione delle partecipazioni statali come strumento di consenso per fare fronte all’avanzata del Partito comunista fosse un errore storico. Finmeccanica doveva innanzitutto restituire vitalità alle imprese debilitate dalla guerra o abbandonate dal capitalismo privato nell’intermezzo, per esempio Alfa Romeo o Ansaldo. Rientrò nel privato per risanare la Lanerossi, ma si trovò invischiato in una stralunata avventura di capitalismo letterario, l’ascesa del finanziere molto self made man Michelangelo Virgillito, che aveva comprato sale cinematografiche e suoli edificatori nella Milano post-bombardamenti. Come spiegavano con tocco poetico Savinio (“Ascolto il tuo cuore, città”, titolo bellissimo) e Giò Ponti, la Milano del Dopoguerra è incomprensibile se non pensi ai bombardamenti. Dopo la guerra, Virgillito si era buttato con successo in finanza. Lanerossi fu la sua preda. Luraghi racconta l’incontro con lui in un paio dei suoi libri: l’appartamento grande, tristarello, spoglio ma pretenzioso, Virgillito che lo accoglie in vestaglia, quattro o cinque telefoni che trillano in continuazione con comunicazioni di borsa e gli svela i suoi segreti di provinciale in città. Anche in quel caso tensioni, conflitto e il contrario di quella canzone che diceva sarà un arrivederci, non sarà certo un addio. Lanerossi finì all’Eni. Qualche tempo dopo, quando Luraghi era già fuori dalla società tessile, Enrico Mattei gli raccontò che lo aveva fatto per procurarsi a buon prezzo coperte da vendere negli autogrill, una sinergia che Luraghi giudicò poco credibile e pertanto offensivo il racconto; gli fece capire che non gli piaceva essere preso in giro. Dopo Lanerossi tornò nel sistema Iri, per l’avventura più bella della sua vita, la presidenza dell’Alfa Romeo, dal 1960 al 1974. Fu la stagione d’oro dell’Alfa e anche quella di Luraghi. Negli anni Cinquanta Luraghi aveva battezzato il primo avvio della rinascita alfista con la Giulietta. Al suo ritorno, da presidente operativo, lanciò la Giulia, la Giulia GT, il Duetto, la 33 Stradale, la Montreal, l’Alfetta e infine l’Alfasud, l’automobile che concettualmente rivoluzionò il mercato europeo, perché fondò il decisivo segmento C e costrinse tutti gli altri produttori, a cominciare dalla Volkswagen, a ridefinire i principi dell’auto borghese di massa di fine secolo. Del resto l’Alfasud (1972) e la Golf (1974) avevano lo stesso padre stilistico, Giorgio Giugiaro. 

  

Negli anni 50 aveva battezzato la Giulietta. Dal ’60 al ’74 la Giulia, la Giulia GT, il Duetto, la 33 Stradale, la Montreal, l’Alfetta e l’Alfasud

  
Dopo aver salvato e rilanciato il gruppo automobilistico pubblico, portandolo a 29.000 dipendenti, oltre 100.000 macchine annue prodotte (record 1973, 123.000 vetture) e a una quota europea dell’1 per cento, come la Bmw, l’Alfasud costituì una grande operazione industriale e politica nella visione di Luraghi. Pomigliano, antica fabbrica dell’Alfa anteguerra che aveva un solido radicamento napoletano, doveva essere la fabbrica moderna dell’allargamento produttivo nel Mezzogiorno, allargamento che la Fiat contrastava. Pomigliano era la fabbrica dell’Alfasud. Fabbrica e automobile ebbero una vita difficile. La storia della vettura venne tiranneggiata da una serie di problemi produttivi che ne condizionarono la reputazione, anche dopo che furono risolti. Sulla fabbrica si innescò uno scontro politico e ideologico che è durato praticamente fino ai tempi di Sergio Marchionne. Pomigliano segnò una doppia sconfitta per Luraghi. L’assunzione di manodopera non qualificata imposta dalla Dc, al posto degli operai meridionali che avevano lavorato in fabbriche tedesche o all’Alfa a Milano, o in uscita dalle aziende meccaniche campane, o in arrivo dalle scuole professionali dell’Iri. E successivamente la richiesta avanzata da due importanti leader democristiani del Mezzogiorno, Ciriaco De Mita e Nino Gullotti – nel 1973 rispettivamente ministri dell’Industria e delle Partecipazioni statali – di insediare un nuovo stabilimento Alfa in provincia di Avellino. Luraghi si oppose e fu mandato via. Negli anni Ottanta il progetto si realizzò con la fabbrica di Pratola Serra dove fu costruita l’Arna, oggetto della joint-venture Nissan Alfa-Romeo che segnò la fine del secondo gruppo automobilistico italiano. Luraghi non perdonò mai a quella Democrazia cristiana di aver sacrificato l’interesse della più brillante azienda meccanica pubblica a quello che considerava il presunto generalismo partitocratico. E negli anni che seguirono e nella sua vasta attività pubblicistica non mancò mai di spiegare e ricordare le sue ragioni.

  

Sturzo era contrario alle partecipazioni statali per ragioni ideologiche, e Luraghi riconosce un fondamento a quell’ostilità

  

Il secondo elemento di modernità del manager milanese fu la capacità di comprendere i meccanismi generali della vita intorno a sé, soprattutto rispetto alla politica. Era un vecchio socialdemocratico che credeva nella funzione civica dell’impresa: nella creazione di profitti e di salari e nell’organizzazione del mondo intorno a sé. Era profondamente laico. Aveva conosciuto Mussolini ai tempi della Linoleum – fantastica storia dove si impongono, autarchiche, le bucce di pomodoro (vedi “Capi si diventa”, pag. 130) – ma si era opposto al fascismo. Aveva avuto un’esperienza ai limiti dell’incoscienza in Spagna durante la Guerra civile, dove era stato spedito per salvare lo stabilimento Pirelli di Barcellona (esperienza condivisa con Emanuele Dubini, poi direttore della filiale iberica e futuro ad del gruppo), ma apparteneva a quella schiera di italiani che voleva uscire rapidamente dal fascismo senza recriminazioni di parte e per ricominciare. Fu molto legato a Merzagora. In teoria era disponibile al dialogo con la Dc politicista, quella dei cavalli di razza. E’ solo che non andava d’accordo con loro. In molti dei suoi racconti, i capi democristiani sono dei mediatori di interessi spesso locali e dei gestori di un federalismo del potere reale sostanzialmente inscalfibile. De Gasperi, Moro, Fanfani gli danno retta, ma non riescono a prevalere sulle spinte di parte che arrivano dai potentati interni al loro stesso partito. In uno dei suoi libri racconta di essere andato a trovare Sturzo una volta. Il fondatore del Partito popolare era contrario alle partecipazioni statali per ragioni ideologiche, e Luraghi riconosce che l’argomento ostile nei confronti delle classi dirigenti dei partiti aveva un fondamento: se dai loro la gestione dell’economia, guasteranno l’economia – questo pensava Sturzo. 

  

Luraghi e Bertone alla presentazione della Giulia 1300 Sprint GT nel 1963 (Olycom)  
   
Negli ultimi anni lo scetticismo anti partitocratico luraghiano, a cui non era estranea una componente di milanesità anti romana, assunse una sfumatura un po’ sdegnata (c’è per esempio una pagina molto severa e coraggiosa sulle richieste irricevibili di Sereno Freato, all’epoca capo della segreteria di Moro). Aveva conservato un fondo di diffidenza. “Ma non era un moralista – dice Pablo Rossi, suo genero che ne ha curato l’archivio – Era un realista, era un uomo rigoroso, ma realista. E aveva imparato a difendersi dalla politica”.


La stessa diffidenza Luraghi la nutre anche rispetto a una parte di uomini d’impresa pubblica e rispetto ad alcuni capitalisti privati a cui rimprovera i difetti di una classe dirigente troppo disponibile al compromesso e alla trama. E’ lo stato d’animo con cui racconta il complesso e molto interessante sviluppo delle trattative condotte da Enzo Ferrari che portarono all’acquisto della sua casa automobilistica da parte della Fiat. Il Drake – nome d’arte che del resto viene da un pirata – trattò su tre tavoli con Luraghi, Agnelli e Ford. Alla fine della lunga partita Luraghi gli scrisse una lettera vagamente giudicante, alla quale l’altro rispose ineffabile, non era interessato a quel genere di argomenti. Il racconto di Luraghi si chiude con una considerazione sull’altro protagonista della trattativa, Gianni Agnelli, all’epoca nel pieno della sua stagione di dirigente in prima persona dell’azienda ereditata dal nonno. Gli dice: caro Luraghi, l’Alfa deve abituarsi a questo genere di dispetto da parte nostra. E anche voi ce ne farete. Luraghi non contempla il senso del dispetto, pensa che il mondo sia abbastanza grande per contenere due produttori italiani. E negli anni Ottanta, a oltre dieci anni dalla sua uscita, quando l’Alfa viene acquisita dalla Fiat si schiera con chi non è favorevole all’operazione. 
Ma questa diffidenza di sistema non è costitutivamente antipolitica, ha origine in una forma di rispetto quasi religioso della competenza. Questo fa di Luraghi un uomo di minoranza e un uomo di fascino. Scrive Nicola Crepax che lo ha a lungo studiato: “Uno dei tratti distintivi dell’azione di Luraghi è rintracciabile proprio nel suo tentativo di proporsi come elemento di un ceto dirigente in formazione capace di affermare le proprie competenze e capacità, per la forza delle strategie attuate, per la vitalità delle proprie idee”. E conclude molto acutamente: “In questo Luraghi è stato, appunto, uno degli sconfitti nell’Italia della Prima Repubblica”. 

  

Inventò una moderna comunicazione d’impresa, che per lui aveva un compito extra-industriale. Un parente di Gualino e Olivetti

  
C’è un altro aspetto di Luraghi meno raccontato. Ma molto interessante, almeno per chi scrive e per una ragione soggettiva (chi scrive dirige la riedizione di Civiltà delle Macchine). Luraghi inventò una moderna comunicazione d’impresa e puntò sempre a rappresentare una coscienza avanzata dell’industrialismo anche nella sua espressione estetica e nella base filosofica del suo ruolo. Per lui l’impresa ha un compito extra-industriale. Luraghi è mezzo parente di Gualino e Olivetti. Alla lontana (del resto, nella sua storia non ci sono ritratti di Casorati). Riccardo Gualino e Adriano Olivetti sono due uomini molto distanti tra loro, ma costruiscono un racconto di loro stessi che parte dalla condizione di imprenditori aperti alla società intellettuale che influenzerà il Novecento italiano. Gualino con un accenno di ambizioso rinascimentalismo, il rapporto con Lionello Venturi e il gruppo dei Sei, i pittori torinesi cresciuti con Felice Casorati; Olivetti fondando un archetipo novecentesco dell’azienda moderna, la quale azienda produce cambiamenti, sociologia, radicamento, impegno politico, benessere diffuso, partecipazione. Ottieri, Volponi, Fortini, Pampaloni, Ferrarotti, impiegati dalla rivoluzionaria azienda di Ivrea. Con “Donnarumma all’assalto” di Ottiero Ottieri nascerà la letteratura industriale italiana. 


Luraghi conosce la lezione di Olivetti. Fonda Rivista Pirelli nel 1948 con Arturo Tofanelli e Leonardo Sinisgalli, che ha cominciato la sua carriera di comunicatore all’ufficio pubblicità di Olivetti. Rivista Pirelli è anche un manifesto di umanesimo industriale, il primo tentativo di mettere in relazione le cosiddette due culture – tecnico-scientifica e umanistica – che poi sarà pienamente sviluppato in Civiltà delle Macchine. Ma il solco della rivista manifesto, il solco della rivista che incarna un’identità che parte dall’azienda e va oltre è evidentemente tracciato dalla Rivista Comunità di Olivetti. Anche in Finmeccanica ridefinisce la comunicazione d’impresa, come spiega Daniele Pozzi in “Una sfida al capitalismo italiano: Giuseppe Luraghi”, fino a quel momento affidata soprattutto alle fiere campionarie e a un monumentale catalogo in più volumi della produzione di gruppo.

 

La fondazione di Civiltà delle macchine nel ’53. Sinisgalli è un perfetto partner creativo, eclettico, interprete ideale del luraghismo

  
Luraghi è un manager intellettuale. Giuseppe Lupo insegna Letteratura italiana contemporanea alla Cattolica. Ha dedicato una parte della sua vita di studioso al rapporto tra la letteratura e la società industriale. Nei suoi libri (p.es. “La modernità malintesa” o “Le fabbriche che costruirono l’Italia”) non lo tratta mai da capo azienda, ma da intellettuale. In effetti, Luraghi per tutta la vita subisce la sirena artistica (la poesia, la musica, la pittura, ma non ha le qualità dell’artista), e per tutta la vita riflette, concettualizza e scrive. Da ragazzo comincia a pubblicare articoli di aeronautica e successivamente di economia per un periodico. Poi comincia a cimentarsi con la poesia. Pubblica delle raccolte. In Spagna ha conosciuto Rafael Alberti e lo traduce. Fonda una casa editrice, Edizioni della Meridiana, che pubblica solo 49 volumi, e vince un Premio Strega con “Villa Tarantola” di Vincenzo Cardarelli. Negli anni continuerà a scrivere saggi, racconti, un breve ciclo di piccoli romanzi popolari, critica d’arte. Civiltà delle Macchine è la sua creatura più importante ed è quella a cui tiene di più. Sulla bandella di un libriccino pubblicato da Mondadori nel 1976, “Miracolo a Porta Ticinese”, la breve bio di 14 righe si conclude così: “Ha fondato con Leonardo Sinisgalli la rivista Civiltà delle Macchine”. La fondazione risale a 23 anni prima. Lo scrive perché la sente sua, da sempre. Sua è l’idea, Sinisgalli, conosciuto nel 1942 davanti alla sede romana della Linoleum, è un perfetto partner creativo, brillante, eclettico. E’ l’interprete ideale del luraghismo. E’ un ingegnere, poeta, con una formazione matematica. E’ nato a Montemurro, in provincia di Potenza, se n’è andato per studiare. Si affaccia alla comunità delle lettere nel 1934, Littoriali della Gioventù su consiglio di Cesare Zavattini. La giuria composta da Giuseppe Ungaretti (che ritornerà nella sua vita), Renato Bacchelli e Aldo Palazzeschi lo proclama primo littore per la poesia, secondo Attilio Bertolucci, terzo Pietro Ingrao (altri tempi…).

    

Lo stabilimento Alfa Romeo ad Arese negli anni 60 (foto Wikimedia) 
   
Negli anni Trenta, la pubblicità era già un fatto essenzialmente di scrittura. “Ecco il nuovo tacco Pirelli. Il segreto dell’eleganza maschile stà (accento) nel perfetto appiombo (aplomb) della persona sui piedi. Per equilibrarla”. Questo è il testo, la foto ritrae un bell’uomo in doppio petto chiaro che scende tre gradini. Dopo la guerra Luraghi rivoluziona tutto, punta su un processo identitario. Pirelli deve diventare anche un brand di cultura industriale, la rivista è l’incubatore della trasformazione. Collaborano intellettuali, scrittori, artisti. Nel 1950 lascia Pirelli, fa un passaggio in Sip, e approda in Finmeccanica. Scrive a Sinisgalli e gli prospetta l’ipotesi di dirigere Civiltà delle Macchine. Quattro milioni di lire l’anno, pagabili a trimestri posticipati. L’altro accetta. E’ un tipico uomo intelligente del Mezzogiorno. Se n’è andato da Montemurro da ragazzino per fatto di talento e ambizione, ha conservato un tratto provinciale, relazionale, empatico, affettuoso. Con Luraghi condivide l’amicizia di un gruppo di artisti, tra cui spicca Domenico Cantatore, e di poeti, Ungaretti in testa. Lui e Luraghi sono due opposti schematici. Il milanese operoso e il meridionale trapiantato prima al nord e poi a Roma. C’è un passaggio parallelo nelle rispettive biografie che fotografa la differenza. Per un brevissimo periodo, nel 1944, Sinisgalli viene trattenuto a Roma nella prigione di via Tasso dai tedeschi. E’ la Roma di Isabel Colonna, dei generali fedeli alla casa reale ma imbelli, di Virginia Agnelli – che cerca di organizzare un incontro tra Pio XII e Karl Wolff, capo supremo delle SS in Italia – di Roberto Rossellini e della Magnani. Disordinata, guerresca, aristocratica, cinematografica, città aperta, resistente e ancora fascista, viene raccontata ne “I coetanei”, il bel libro di memoria scritto da Elsa de Giorgi. Grande amica di Annarella e già diva dei telefoni bianchi, più tardi intratterrà una relazione matura con Italo Calvino. Per rendersi conto del clima, Antonello Trombadori, capo dei Gap romani, ironizza e altera il titolo in “I coitanei” (fonte: Duccio Trombadori), geniale variazione più aderente alla confusione complessiva dei momenti di trapasso. Nell’agitazione della piccola carcerazione, dovuta alle amicizie progressiste di Sinisgalli che peraltro non è mai stato un antifascista militante, a salvarlo dal pressing nazista arriva Giorgia de Cousandier, la sua compagna, francese, aristocratica minore, che parla un po’ di tedesco. Sinisgalli se la cava, come sempre. Luraghi vive quel momento in un altro modo. Milano è allo sbando, le colonne tedesche lasciano la città nel disordine degli sconfitti. Il giorno della Liberazione, Luraghi sta andando in bicicletta alla Bicocca per avvisare gli operai armati e asserragliati nello stabilimento che Milano è caduta. “Ritornando in città come ne ero venuto, scorsi mio fratello in una colonna aperta da un carro armato, composta da lavoratori che avevano improvvisato una vana resistenza nel vecchio stabilimento della Brusada” (“Capi si diventa”, Rizzoli, 1974). In un bel libro di Rinaldo Gianola (“Luraghi, l’uomo che inventò la Giulietta”), il racconto è più dettagliato e drammatico. Lo zio Conto, fratello di Giuseppe, giudicato in famiglia un po’ bizzarro, è nella colonna di civili prigionieri dei tedeschi. Non sono SS, ma sono impauriti, dunque pericolosi. Giuseppe corre da Merzagora a chiedergli aiuto. Non ce ne sarà bisogno. Trova lo zio Conto in una sala deserta della fabbrica, scampato agli scontri della esiziale giornata.

  

L’idea delle due culture – scienza e umanesimo – tenute insieme dal gusto per l’arte contemporanea e dall’uso degli artisti come testimoni/narratori

  
Nonostante le differenze lui e Sinisgalli vanno d’accordo. L’idea delle due culture – scienza e umanesimo – tenute insieme dal gusto per l’arte contemporanea e dall’uso degli artisti come testimoni/narratori di una grande trasformazione culturale, antropologica, anche etica dal loro punto di vista – una trasformazione all’insegna della nuova civiltà delle macchine – è un’idea condivisa, accudita da entrambi con lo stesso affetto. Al libro manifesto di Sinisgalli, “Furor Mathematicus”, opera combinatoria di frammenti, risponderà tanti anni dopo Luraghi, con “Le Macchine della Libertà”, pubblicato nel 1968 da Bompiani, un documento programmatico, molto politico e proiettato sul futuro.            


Sinisgalli lascerà la direzione della rivista nel 1958 poco dopo l’uscita di Luraghi da Finmeccanica. Tornerà con lui in Alfa Romeo dove faranno insieme molte altre cose. Per alcuni decenni a venire la rivista fondata da Sinisgalli e Luraghi svilupperà una grande influenza sulla cultura d’impresa e sull’umanesimo industriale. Civiltà delle Macchine continuerà a vivere, ancora bellissima, sotto un’altra direzione, quella di Francesco Flores d’Arcais. Quando nel 1980 cessano le pubblicazioni di Civiltà delle Macchine (riprenderanno nel 2019, edita da Fondazione Leonardo), Luraghi settantacinquenne scrive una lettera al suo compagno d’avventure. “Questo funerale ufficiale non manca di addolorarmi”. Chiude la lettera con qualche riga affilata contro l’Iri e contro Roma, l’incomprensibile città che non ha mai amato.