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L'analisi

Quale cura per il made in Italy in difficoltà

Marco Bentivogli

Dati ancora negativi sulla produzione industriale. Dal 2023 consumi ed esportazioni sono in calo: Automotive e abbigliamento i settori più colpiti. Ma le sofferenze dell’industria sono fuori dall’agenda politica. Un’indagine

L’industria è in difficoltà ma è fuori dall’agenda politica. Rappresenta ancora circa il 20 per cento del prodotto interno lordo (pil) ed è uno dei principali motori economici del paese, comprendendo attività manifatturiere, estrattive e di produzione di energia. L’industria manifatturiera in particolare gioca un ruolo centrale, rendendo l’Italia una delle principali potenze industriali in Europa. Negli ultimi anni, il settore ha dovuto affrontare sfide significative, tra cui la concorrenza internazionale e la necessità di adattarsi a nuove tecnologie e strategie di sostenibilità.

Da troppi anni la comprensione dei problemi (o delle opportunità) della nostra manifattura è stata confusa col prendere qualche applauso nelle convention delle associazioni di categoria degli industriali. Un po’ poco. 

Per fortuna le imprese, specie quelle di medie dimensioni, innovative e capaci di esportare, vivono “a prescindere” da (e forse “grazie a”) ciò che la politica o la loro rappresentanza pensa sia rilevante. Il surplus della nostra bilancia commerciale si regge, ancora (e speriamo a lungo) sull’industria.

I dati Istat mensili di luglio sulla produzione industriale italiana sono pessimi: per il diciottesimo mese consecutivo è risultata in calo rispetto ai livelli dell’anno precedente diminuendo del 3,3 per cento rispetto a luglio del 2023, e dello 0,9 per cento rispetto a giugno del 2024. Il dato non ha fatto molta notizia nonostante dall’andamento dell’industria dipenda ogni anno il 20 per cento di tutto il nostro pil e, appunto, larga parte delle nostre esportazioni. Dal 2023 si assiste (letteralmente) a un significativo calo generalizzato dei consumi e delle esportazioni, particolarmente accentuato per l’abbigliamento e il settore delle auto; restano, inoltre, altissimi i costi dell’energia che rappresentano un problema di competitività per tutti e in particolare per le produzioni energivore. Per capire, la nostra produzione industriale è attualmente di 5,5 punti al di sotto del 2021, periodo in cui ancora vigevano le restrizioni per la pandemia.

Sostenere che le difficoltà riguardano tutto il continente è anche vero, ma il nostro paese ha qualche problema in più. E soprattutto visti i livelli di produttività media e di finanza pubblica, non ci si può permettere, più di altri, un’altra crisi industriale.

In realtà, in Italia l’andamento dei settori industriali è fortunatamente diversificato. Tra essi risultano particolarmente penalizzati il settore dell’abbigliamento e quello delle auto, la cui produzione rispetto a un anno fa è diminuita rispettivamente del 18 e del 35 per cento. Più in generale, stiamo perdendo i settori chiave della nostra manifattura.

Moda e abbigliamento

L’abbigliamento sta risentendo di una crisi generalizzata dei consumi, che però è particolarmente accentuata nel comparto del lusso, che dà lavoro a moltissime industrie italiane: dalla piccola pelletteria alle calzature, dalla produzione delle singole componenti, come bottoni e cerniere, all’assemblaggio dei capi finiti. L’interesse dei consumatori verso gli articoli di alta e altissima gamma sta calando, per due motivi principali: da un lato l’andamento incerto dell’economia globale e dei mercati più importanti per il settore, come quello cinese; dall’altro è in corso un ampio cambiamento culturale che sta influenzando negativamente le scelte di consumo verso quei prodotti ritenuti eccessivamente cari.

Non solo, molti grandi brand italiani quotati in Borsa, nel corso di questi anni sono stati ritirati dal listino e spesso ceduti a investitori stranieri, in particolare francesi. La consolazione è che almeno per questo settore, per adesso, le manifatture sono rimaste nel nostro paese. Ma fino a quando la filiera italiana resisterà alla competizione cinese e alle pressioni interne per ridurre i costi di produzione?

  

Automotive

Il mercato europeo dell’auto ha perso il 22 per cento rispetto al periodo pre pandemia (2019). Gli ordini di auto nuove sono in calo in tutta l’Unione Europea e l’Italia risulta molto penalizzata per due motivi. Da un lato risente della forte crisi tedesca: gran parte del successo dell’industria italiana dell’auto deriva dal mercato della componentistica, tra i migliori d’Europa e che riforniva proprio l’industria tedesca dell’auto; il comparto tedesco ora è in crisi, col risultato che gli ordini verso l’Italia sono assai calati. Dall’altro lato il settore è penalizzato anche dalle scelte industriali e di investimento di Stellantis. Sostanzialmente l’unico produttore presente in modo significativo in Italia. All’inizio dell’anno Stellantis si era impegnata ad aumentare la produzione negli stabilimenti italiani, con l’obiettivo di arrivare a un milione di veicoli all’anno: al momento è abbastanza irrealistico che ci riesca. Nel 2023 aveva prodotto in Italia 752 mila veicoli, di cui 521 mila auto, e secondo le stime preliminari nel 2024 la produzione calerà almeno del 30 per cento. L’unica auto che si vende bene (e produce) in Italia, è la Panda, che sarà ribattezzata “Pandina” (prodotta a Pomigliano d’Arco) perché la Grande Panda sarà prodotta a Kragujevac in Serbia. Maserati in attesa dell’elettrificazione della piattaforma Folgore (su cui saranno costruiti diversi modelli) è in crisi profonda.

Questo mese è di nuovo ferma la produzione della 500 elettrica a Mirafiori. Dove si attende la 500 ibdrida, attualmente prodotta in Polonia. La Junior (il governo ha ottenuto che non si chiamasse Milano) è prodotta a Tychy in Polonia. Il quadriciclo Topolino in Marocco. Stelvio e Giulia saranno rinnovate ma superando la piattaforma comune “Giorgio”. La produzione dei veicoli commerciali di Sevel si è dimezzata. Nel frattempo è stato costruito uno stabilimento gemello a quello di Atessa (Ch) che ha ancora però problemi per andare a regime. L’ad Carlos Tavares, nell’unica interlocuzione che ha con il nostro paese chiede soldi pubblici e senza garantire investimenti. Di fatto gli stabilimenti sono pieni... di cassa integrazione. Si dirà, ma l’Automotive non va male un po’ ovunque?  Volkswagen ha cancellato gli accordi del 1994 e annunciato decine di migliaia di esuberi. Verissimo, come è vero che la reazione di Stellantis, al momento, è di investire lontano dall’Italia.

Le indagini Us e Commissione europea sugli aiuti di stato hanno dimostrato quanto i produttori di auto cinesi siano iper sussidiati dal loro governo. Usa e Canada hanno risposto con dazi del 100 per cento. L’Unione Europea con dazi fino al 36 per cento. Per semplificare, significa che un’auto che arriva dalla Cina al costo di 10.000 euro al consumatore costerà 13.600 euro (in America 20.000 dollari). Allo stesso tempo con i bonus (con soldi pubblici) per acquistare le auto ibride o full electric si riabbasserà di nuovo il prezzo. Il governo si è accorto tardivamente che chiamarlo patriotticamente “bonus tricolore” per auto fatte per lo più ovunque, tranne che in Italia, rasenta la farsa. Le auto importate dalla Cina in Europa sono passate dallo 0,4 per cento del 2019 a quasi l’8 per cento dello scorso anno. In Francia e Spagna nel 2023 quasi una batteria per EV venduta su tre è stata prodotta in Cina. I dazi sono necessari ma non bastano.

Vi ricordate il paese in marcia contro gli accordi che facemmo con Marchionne? Salari e occupazione dal 2004 al 2018 sono cresciuti. Dal 2021, dal completamento della fusione tra Fca e Psa, Stellantis ha perso in Italia oltre 12.000 dipendenti. Nella speranza che cambi strategia, al momento la risposta del nostro governo sembra simile a quella ungherese: consentiamo ai cinesi di eludere i dazi, localizzando la produzione cinese da noi. Come altrove si tratterebbe di assemblare le auto cinesi in Italia, con scarsa creazione di occupazione, tecnologie e competenze. Al momento il produttore cinese Leapmotor (partecipato al 20 per cento da Stellantis) ha annunciato che assemblerà la propria citycar nello stabilimento Stellantis di Tichy in Polonia. Dal 2021, nel silenzio assoluto Stellantis ha disinvestito in Italia, perso occupazione e abbandonato il Wcm (World Class Manufacturing), il sistema di organizzazione del lavoro che aveva rilanciato la produttività.

  

Le gigafactory

Sono le fabbriche che producono le batterie per la mobilità elettrica (e non solo). Le prime 10 aziende produttrici (fatta eccezione per Panasonic, giapponese, con l’8 per cento di quota) sono cinesi e della Corea del Sud. La Cina, da sola, ha il 57 per cento del mercato mondiale, la Corea del Sud il 26 per cento. In Italia da anni sono in pista diversi progetti, tutti al momento al palo. Termoli doveva essere la prima italiana dell’era dell’auto elettrica (per la verità pure l’unica, considerata la triste fine dell’impianto emiliano di Silk-Faw e il modo in cui è naufragata anche quella di Italvolt a Ivrea). A giugno l’ennesimo stop e rinvio al 2025 da parte di ACC (Automotive Cells Company) la joint venture formata da Stellantis, Mercedes e Total che dovrebbe realizzarla nello stabilimento ex Fiat di motori a Termoli. Anche l’incontro dello scorso 17 settembre non ha sbloccato la situazione. Il governo ha annunciato di dirottare gli stanziamenti previsti (dal Pnrr) ad altre destinazioni.

Elettrodomestici

Il settore del “bianco” occupava centinaia di migliaia di lavoratori nel nostro paese. Nelle famiglie proprietarie, con rare eccezioni, i cambi generazionali sono stati disastrosi. Ad essi si sono sommati errori strategici fatali. Ritardi nell’innovazione di tecnologie e competenze, e nell’internazionalizzazione per i prodotti di bassa fascia. Attenzione ossessiva alla competizione in Europa occidentale e Americhe in un momento in cui la vera competizione arrivava dall’est. Cina, Turchia e persino Slovenia. Nel settore negli ultimi 10 anni vi sono stati scarsissimi investimenti, anche con chiusure di siti. Electrolux, ex Zanussi, è di proprietà svedese e prosegue con una strategia di disinvestimento e riduzione del personale.

   

I semiconduttori

I semiconduttori(chip) sono ormai essenziali in tutte le produzioni. La loro carenza nell’approvvigionamento (shortage) blocca intere produzioni. Per questo è sempre più importanti essere dentro le filiere produttive di queste produzioni. L’Italia ha perso l’opportunità di un importante investimento da parte di Intel. Nonostante le trattative iniziali per la costruzione di un impianto di packaging di semiconduttori, Intel ha preferito concentrare i suoi investimenti in altri paesi europei, come la Germania e la Polonia. L’incertezza nelle politiche industriali italiane e le offerte più competitive da altri stati europei hanno contribuito a questa decisione. Questo ha rappresentato una delusione per l’Italia, che sperava di attirare una parte degli 80 miliardi di euro destinati all’espansione europea di Intel​. Sono comunque importanti gli investimenti confermati da StMicroelectronics e l’annuncio dell’investimento di Silicon Box (Singapore) a Novara. anche se non sappiamo quale sarà il contributo statale autorizzato dalla Ue.

   

La siderurgia

Questo settore è il “primario” dell’industria manifatturiera. L’acciaio è il metallo fondamentale della produzione manifatturiera italiana. Gran parte dei prodotti che esportiamo contiene acciaio. Prima del 2000 la Cina era un importatore netto di acciaio e alluminio. In dieci anni è diventato il primo produttore mondiale. I produttori occidentali (e non solo) hanno pensato inizialmente di contrastare l’ingresso dei produttori cinesi con politiche di prezzo (basso) e talvolta di dazi. In pochi anni, la dotazione di risorse minerarie, il mancato rispetto degli standard minimi su ambiente e lavoro si sono rivelati vantaggi competitivi insuperabili. In Europa, peraltro, la Germania è sempre stata la più propensa ad accogliere la Cina nelle “economie di mercato” e a contrastare l’utilizzo dei dazi sulle importazioni cinesi. Oggi la Cina produce il 54 per cento dell’acciaio del mondo. I primi 10 produttori (eccetto Arcelor Mittal) di acciaio nel mondo sono asiatici. Ma cosa è accaduto? Sulle normative di protezione di ambiente e lavoro non esiste nessuno dei vincoli che abbiamo in Europa. E come per gli altri settori, lo stato ha finanziato questo successo: sono cinesi il 90 per cento delle sovvenzioni (70 miliardi di dollari) alla produzione globale di alluminio, cifre non molto inferiori per l’acciaio.

La siderurgia italiana dovrebbe chiudere il 2024 secondo FederAcciai con un fatturato intorno ai 60 miliardi di euro. Sabato 21 settembre si sono palesate le manifestazioni di interesse per il Gruppo Ilva. La gran parte non vuole il gruppo nel suo complesso. Nel periodo tra il 2013 e il 2023, le esportazioni di prodotti siderurgici di Acciaierie d’Italia (ex Ilva) hanno subito una significativa riduzione, pari a 11,7 miliardi di euro. Questo ha comportato un impatto negativo sul totale dell’export italiano. Parallelamente, nello stesso periodo, si è assistito a un forte aumento delle importazioni italiane di prodotti piani in acciaio al carbonio (prodotti simili a quelli realizzati dall’ex Ilva). Questo scenario evidenzia una forte trasformazione nei flussi commerciali legati all’acciaio, con un crescente ruolo dell’Asia nel fornire materiali essenziali all’industria italiana e una contemporanea riduzione del peso delle esportazioni italiane di prodotti siderurgici.

  

La cantieristica navale

Nel 2023 la produzione cantieristica della nautica da diporto italiana ha registrato il suo anno migliore in assoluto, raggiungendo la cifra record di 4 miliardi di euro di export, in crescita del 15,9 per cento rispetto al già eccellente 2022 (3,4 miliardi). Non solo, con Fincantieri, l’Italia primeggia con la più grande azienda di cantieristica in Europa e fra le prime nel mondo con più di 19.000 dipendenti, di cui oltre 8.600 (e altrettanti negli appalti) in Italia e 20 stabilimenti in quattro continenti. Fincantieri è oggi il principale costruttore navale occidentale, e ha nel suo portafoglio clienti i maggiori operatori crocieristici al mondo, con prodotti civili e militari e un volume di affari vicino agli 8 miliardi di euro.

  

Ridisegnare le filiere

La pandemia è stata l’ultima lezione non appresa di quanto sia importante partecipare a catene produttive poco esposte a shock imprevisti come pandemie, instabilità politiche, guerre. Affrontare le sfide della sostenibilità significa avere idee dentro una strategia per la gestione delle transizioni. La Germania poco incline a riconoscere problemi comuni ha sempre avversato le politiche anti-dumping cinesi pensando di giocare la partita dentro accordi bilaterali e localizzando produzioni in Cina. Oggi si è accorta (tardivamente) che quest’ultima gioca una partita “in proprio” da leader globale scaricando l’eccesso di capacità produttiva proprio sull’Europa, come sempre veloce a fissare norme e traguardi, ma incapace di costruire strategie per raggiungerli. In queste ore sembra accrescere il consenso alla revisione delle normative sulla decarbonizzazione, a partire dal 2035 per i motori endotermici. Ma il tema non è fissare o rimuovere il traguardo ma costruire una strategia per tornare in campo.

  

La produttività

La produttività del lavoro è un fattore determinante non solo per la crescita economica ma anche per la competitività paese. Nel calcolo del Clup (Costo del lavoro per unità di prodotto) entra in gioco proprio la produttività: più alta (o più bassa) la produttività del lavoro più basso (o più alto) il Clup. I salari, specie in Italia, hanno una bassa incidenza sul Clup. Il nostro paese ha quattro nodi critici: burocrazia e inefficienza della Pubblica amministrazione, ridotta taglia dimensionale delle imprese, difficoltà di accesso all’innovazione tecnologica, basse competenze medie. Per affrontare questi nodi ci vorrebbe il coraggio delle riforme, ancora rinviate nonostante il Pnrr. Sull’ultimo nodo, quello dell’innovazione, il paese non ha un modello (neanche nel Pnrr) di trasferimento tecnologico efficace. Le grandi imprese (ormai poche) non fanno “open innovation” e per le piccole, la soglia di accesso all’innovazione è troppo alta.  Tutti gli ultimi governi hanno completamente eluso o banalizzato questo tema.

Bassa produttività, orari di lavoro elevati e bassi salari: l’Italia è ancora, tra le maggiori economie Ocse, il paese con il più consistente calo dei salari reali, inferiori del 6,9 per cento nel 2024 rispetto ai livelli pre-pandemici. Un motivo in più per rinnovare presto e bene i contratti nazionali del settore e diffondere la contrattazione di produttività e di innovazione integrativa.

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