La Corte costituzionale e il problema dell'indicizzazione delle pensioni

Luciano Capone

La Consulta dovrà decidere sul taglio della perequazione degli assegni più elevati, con potenziali ricadute sul Bilancio per 36 miliardi. I giudici dovranno tenere conto del fatto che il "raffreddamento" delle pensioni serve a finanziare la decontribuzione

L’attenzione pubblica è tutta rivolta alle prossime decisioni sull’autonomia differenziata, sia rispetto ai ricorsi diretti delle regioni sia sull’ammissibilità del referendum, e sull’altro referendum che riguarda la cittadinanza. Due temi che animano la dialettica politica. Ma la Corte costituzionale sarà chiamata a esprimersi su una questione che ha un potenziale impatto nettamente superiore per il governo e il paese in generale.

Riguarda la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte dei conti della Toscana nel ricorso di un ex dirigente scolastico contro il taglio della rivalutazione delle pensioni deciso dal governo Meloni. “La penalizzazione dei titolari di trattamenti pensionistici più elevati – sostiene della Corte dei conti toscana – lede non solo l’aspettativa economica ma anche la stessa dignità del lavoratore in quiescenza”.

Il governo Meloni nelle due leggi di Bilancio, con un intervento più incisivo nella prima, ha stabilito in via eccezionale che le pensioni non devono essere indicizzate tutte integralmente all’inflazione, ma con scaglioni decrescenti. A fronte di una rivalutazione del 120% delle pensioni minime e di un recupero integrale per i trattamenti fino a quattro volte il minimo, per gli assegni superiori erano previsti sei scalini decrescenti dall’85% al 22% per le pensioni oltre dieci volte il minimo.

Sul tema delle pensioni e dei “diritti acquisiti” la giurisprudenza della Consulta non di rado ha dato ragione ai ricorrenti. Il caso più significativo è la sentenza 70 del 2015 che cassò il blocco della perequazione delle pensioni deciso dal governo Monti durante la crisi del debito sovrano, imponendo in capo allo stato l’obbligo di restituire ai pensionati un ammontare pari a 17,6 miliardi di euro (oltre un punto di pil).

Con l’incremento superiore all’inflazione per le pensioni minime il governo Meloni ha inserito un elemento perequativo all’interno del sistema pensionistico, spalmando poi il “sacrificio” su base progressiva. Una differenza sostanziale rispetto al blocco tout court. Il tentativo, naturalmente, è stato quello di prevenire una censura della Corte costituzionale di fronte agli inevitabili ricorsi che sarebbero arrivati: il taglio è giustificato sia dall’eccezionalità della crisi inflattiva sia dalla selettività della misura, oltre che dalla sua temporaneità. I ricorrenti e la Corte dei conti della Toscana, evidentemente, sono di parere contrario: non si può sacrificare il diritto acquisito, frutto del lavoro svolto durante la gioventù (ma non sempre calcolato sulla base dei contributi versati), sull’altare di “un’asserita ottica dell’equità intergenerazionale”. 

Si vedrà come andrà a finire. Di certo, in caso di accoglimento del ricorso, l’impatto per il Tesoro sarebbe notevole. La misura vale, a regime, 4 miliardi annui: circa 36 miliardi fino al 2032. Vorrebbe dire che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, potrebbe essere costretto a rimborsare immediatamente 6 miliardi (2 miliardi per il 2023 e 4 miliardi per il 2024) e a dover trovare coperture strutturali per circa 4 miliardi annui. Ci sarebbe un impatto non solo sulla manovra annuale, ma sul Piano strutturale di Bilancio di sette anni concordato con Bruxelles, che si basa proprio sul rigido controllo dell’aggregato della spesa netta. Il governo dovrebbe, insomma, aumentare le tasse o tagliare le spese di pari importo.

Ma oltre alle questioni di finanza pubblica, che comunque incidono sulla decisione della Consulta, dato che – per quanto sia bistrattato – nella Costituzione c’è anche un articolo sull’equilibrio di bilancio (art. 81), ci sono anche delle considerazioni di equità da valutare. Non solo all’interno del sistema pensionistico o in ottica intergenerazionale, ma anche rispetto ai lavoratori. Il tema lo ha sollevato il think tank Reforming.it che, in un’analisi di Nicola Salerno, ha analizzato i dati dell’Inps sull’andamento di pensioni e retribuzioni.

A fronte di un’inflazione per famiglie e lavoratori (Foi) tra il 2021 e il 2023 del 13,9%, le pensioni hanno ricevuto un aumento nominale attorno al 9%, inferiore all’inflazione, ma comunque importante in una fase critica. Per i lavoratori, invece, l’aumento delle retribuzioni medie lorde è stato solo del 6,9%, ma l’incremento netto è stato del 10,4% grazie all’esonero contributivo portato a 6-7 punti per i redditi medio-bassi dal governo Meloni per contrastare gli efetti della fiammata inflattiva. 

Ma la decontribuzione costa 11 miliardi annui e quindi – questo è il ragionamento di Salerno – è stata possibile anche grazie al “raffreddamento” dell’indicizzazione delle pensioni. Questa relazione, trascurata nel dibattito pubblico in uno scenario critico per i conti pubblici, dovrà essere valutata dalla Consulta nella sua decisione. L’indicizzazione non è un diritto assoluto e le pensioni non sono una variabile indipendente, soprattutto in un paese in crisi demografica, con un debito elevato e una crescita anemica come l’Italia.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali