La crescita dell'Italia è tra le più pulite del mondo

Luciano Capone

Secondo la Bce, il "pil corretto per l'inquinamento" italiano aumenta dello 0,36 per cento in più. L'Europa cresce inquinando di meno, mentre Cina e India crescono inquinando di più. Perciò ora le imprese protestano contro gli eccessi del Green deal

Nella sua prima relazione da presidente di Confindustria, Emanuele Orsini ha attaccato il Green deal dicendo che, sebbene la transizione energetica sia una sfida da affrontare, l’impostazione europea “mette a rischio l’industria”: “La decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della deindustrializzazione è una débâcle”, ha aggiunto, paventando la fine – a vantaggio dei competitor internazionali – di interi settori come l’automotive, l’acciaio, il cemento, la metallurgia, la ceramica, la carta, il packaging.

Pochi giorni dopo, nella sua relazione annuale da presidente di Federacciai, Antonio Gozzi ha manifestato profonda “delusione” nei confronti del discorso di insediamento di Ursula von der Leyen: “Timmermans non c’è più, fortunatamente, ma il suo fantasma sembra ancora aleggiare nei corridoi della Commissione”. Il presidente degli acciaieri ha confermato l’obiettivo ambizioso di un “acciaio decarbonizzato” entro il 2030 “ma al 2030 bisogna arrivarci vivi”, cosa che – a suo giudizio – sarebbe incompatibile con le norme europee in vigore che impongono extracosti insostenibili per le imprese energivore. 

Il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti, da poco nominato al vertice degli agricoltori europei come presidente del Copa, ha fatto considerazioni analoghe sul Green deal e sulla strategia europea Farm to Fork che puntava ad abbattere le emissioni in agricoltura. Sembra che l’Italia che produce voglia impegnarsi poco per ridurre le emissioni. Ma non è così.

Pochi giorni fa, nel suo Bollettino economico la Banca centrale europea ha pubblicato un focus sulla “Contabilizzazione della natura nell’attività economica dell’area euro”. Lo studio riprende varie iniziative che puntano a tenere maggiormente conto della natura nella misurazione dell’attività economica. Tra le varie misurazioni, la Bce riprende il progetto dell’Ocse che calcola il “pil corretto per l’inquinamento”, ovvero aggiustando la misurazione tradizionale dell’output ai costi scaricati sull’ambiente (come ad esempio le emissioni di anidride carbonica, azoto, zolfo, particolato e altri inquinanti). Se realizzare lo stesso prodotto usando una quantità inferiore di input aumenta il valore aggiunto, è il ragionamento, analogamente conseguire lo stesso prodotto consumando una minore quantità di inquinanti induce un maggiore valore aggiunto (dal punto di vista ambientale, ma anche economico in una prospettiva di lungo termine). 

Ebbene, introducendo questa variabile nella contabilizzazione del valore aggiunto, ciò che emerge è che tra il 1996 e il 2018 “l’inquinamento è significativamente diminuito nella maggior parte delle economie europee”, aggiungendo mediamente quasi 0,28 punti percentuali di crescita annua del pil corretto per l’inquinamento. Ma il dato significativo è che l’Italia registra uno degli incrementi più elevati: +0,36 punti annui, quasi quanto la Francia (+0,37 punti), e più della Germania (+0,33 punti).

Questo incremento della crescita annua in Francia, Italia e Germania è “un valore più che doppio rispetto alla correzione per l’inquinamento relativa agli Stati Uniti” (+0,17 per cento annuo), scrive la Bce. Mentre “in Cina e in India la crescita del pil ha comportato una crescita dell’inquinamento” che, usando lo stesso parametro, vale rispettivamente -0,58 e -0,53 punti di pil annui. Il “miglioramento” italiano è notevolmente superiore anche a quello di altri paesi europei, come l’Olanda (+0,22 punti di pil) o la Spagna (+0,11 punti).

Per l’Italia, l’aggiustamento è notevole soprattutto considerando il fatto che la crescita reale nel ventennio preso in considerazione è stata molto bassa: +0,60 per cento annua. La stessa crescita corretta per l’inquinamento sale così attorno a +0,95 per cento. Mentre per la Francia passa da 1,61 a 1,98 per cento; per la Germania da 1,40 a 1,73 per cento; per gli Stati Uniti da 2,45 a 2,62 per cento; per la Cina scende da 8,67 a 8,09 per cento; e per l’India da 6,81 a 6,28 per cento. Vuol dire, in sostanza, che l’Europa cresce poco inquinando di meno, mentre l’Asia cresce molto inquinando di più.

Questi dati sono la dimostrazione che negli ultimi decenni il sistema produttivo italiano, nonostante gli enormi problemi di crescita e competitività, ha prodotto consumando molti meno input inquinanti. Si tratta, molto probabilmente, da un lato della transizione energetica che ha portato allo sviluppo delle fonti rinnovabili e all’uso del gas in sostituzione di carbone  e olio combustibile; dall’altro della conseguenza dell’elevato costo dell’energia che inevitabilmente spinge i produttori a fare di necessità virtù, ovvero efficienza.

Ma sono anche la riprova che il sistema delle imprese non ha tutti i torti a lamentarsi. Ha fatto tanto e sta facendo molto, ma se si chiede di più il rischio è davvero quello di perdere competitività a favore di quei paesi che, invece, stanno crescendo aumentando emissioni e inquinamento. Non farebbe certamente bene all’economia europea, ma neppure al cambiamento climatico globale.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali