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Analisi al telefono

Nel lusso non contano solo i ricchi

Mariarosaria Marchesano

La strategia post-pandemica di caricare i prezzi oltremisura si è rivelata un boomerang nel giro di due anni, dice Claudia D’Arpizio di Bain&Company. La cura: bilanciare l’offerta, tenendo conto dei nuovi mercati come India e Filippine

Sebbene la crisi del lusso sia l’argomento del giorno, e i dati confermino che il settore da inizio anno ha preso una bella sberla, gli analisti più attenti sono concordi nel ritenere che questo non sia un elemento strutturale quanto, piuttosto, una crisi di “coscienza” dovuta agli eccessi degli anni post Covid – prezzi stratosferici che spesso non si riflettono nella qualità dei prodotti – e che sta già portando i grandi marchi europei a riposizionare la strategia. In quale modo? Lo racconta al “Foglio della Moda” Claudia D’Arpizio, senior partner e responsabile globale moda e lusso di Bain&Company. “Dalle ultime sfilate di Parigi, un po’ meno da quelle di Milano, si colgono i segnali di un cambio di passo”, dice. “Abbiamo visto sulle passerelle meno “elevation” (l’innalzamento del percepito del prodotto e del suo relativo prezzo, ndr) e meno “quiet luxury”, gli slogan che hanno dominato gli ultimi anni quando il settore ha cominciato a produrre solo per i super ricchi”.

In effetti, il gran rimbalzo della domanda di beni di lusso registrato dopo la pandemia ha illuso tutti che il desiderio di gratificarsi con il bello, anche strapagandolo grazie ai risparmi accumulati nel lockdown, durasse per sempre. Le cose, invece, sono cambiate in fretta un po’ in tutto il pianeta in seguito a fattori geopolitici che, in occidente, hanno fatto aumentare l’incertezza percepita anche dalle classi più alte e, nel sud est asiatico, hanno modificato abitudini di spesa e stili di vita in un mercato di sbocco fondamentale per le maison del vecchio continente. “Bisogna cogliere l’opportunità della nuova classe media di consumatori che si sta formando in Cina, paese in cui non è più socialmente accettabile l’ostentazione della ricchezza da parte delle élite e dove il ‘luxury shame’ ha contribuito a far diminuire significativamente le vendite occidentali”. Ma l’immenso mercato di nuovi potenziali clienti – stiamo parlando di 100 milioni di persone previste al 2030 che in gergo tecnico vengono definite “altospendenti” - va intercettato e conquistato, secondo D’Arpizio, con “un approccio più inclusivo” da parte del sistema della moda.

Ad oggi, il rallentamento economico della Cina è considerato una delle maggiori cause della contrazione che sta vivendo il settore lusso a livello mondiale, a differenza del fast fashion, che, dopo aver superato i colli di bottiglia delle catene di approvvigionamento e aver modificato le proprie catene produttive, avvicinandole ai luoghi di vendita, vive una stagione positiva. Secondo le previsioni di Bain, il 2024 sarà un anno piuttosto piatto, che si chiuderà con una crescita del settore compresa tra lo 0 e il 4 per cento: si tratta di un range piuttosto ampio, ma comunque meno peggiore del primo semestre che ha fatto registrare una contrazione dei ricavi stimata tra l’1 e il 3 per cento, subito riflessa nei volumi prodotti dalle filiere con un tonfo del 10-15 per cento. “Ad essere colpiti sono soprattutto i distretti italiani dove è concentrata la maggior parte della produzione mondiale del lusso”, spiega D’Arpizio. “Si tratta, purtroppo, dell’effetto a valle di quello che oggi possiamo considerare come un errore strategico da parte dei big del settore, che hanno inseguito troppo le classi ricche caricando i prezzi dei beni. Questo ha consentito loro di assorbire bene l’inflazione portando a casa nel primo periodo risultati brillanti. Evidentemente, però, hanno esagerato, visto che da un certo punto in poi la domanda è cominciata a calare”.

Insomma, essere troppo esclusivi non funziona più, sia perché si tagliano fuori i giovani, la generazione Zeta che rappresenta la clientela potenziale di domani, sia perché si rinuncia a quel target “middle class” che sta nascendo in Cina, in altri paesi del sud est asiatico e in generale nelle economie emergenti. Ma cosa vuol dire nel concreto “una strategia più inclusiva”? Le case di moda spesso non sono disposte a rinunciare all’immagine di brand costosi e di alta gamma che si sono costruite in decenni di attività. “Casi di successo ce ne sono da sempre nel mondo dei gioielli: Cartier, per esempio, ha reso accessibili le sue collezioni alle nuove generazioni senza per questo snaturare il suo profilo iconico. E lo stesso, sebbene su un piano diverso, ha fatto Tiffany. Questo dimostra che non è impossibile trovare un bilanciamento, che in prospettiva diventerà la carta vincente sul mercato”. Il principale effetto di questo riposizionamento strategico, come osserva sempre D’Arpizio, potrebbe essere che il comparto del lusso, storicamente anticiclico, in futuro potrebbe diventare sempre più dipendente dalla congiuntura economica, visto che si rivolgerà anche alla “middle class”, la cui capacità di spesa dipende dal reddito prodotto e non dalla ricchezza accumulata (questo almeno in Cina, perché in Italia e in Europa la classe media dispone di ampie riserve di risparmio).

Il secondo effetto, è che realizzare una diversificazione geografica guardando a tutti i paesi emergenti del mondo, comprese l’India e le Filippine, dove la crescita economica sta facendo emergere nuovi potenziali consumatori, porrà sfide ancora più grandi ai produttori di quanto non sia accaduto finora nell’adattamento delle collezioni ai vari mercati e alle varie culture. Ma questa è un’altra storia.

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