L'insostenibile contraddizione della riduzione dell'orario di lavoro

Luciano Capone

Pd, Avs e M5s sostengono che si può lavorare meno a parità di salario perché aumentano produttività e crescita, ma prevedono generosissimi sussidi per le imprese (taglio dal 30 al 60% dei contributi). Ma hanno un punto fermo: niente sconti per braccianti e badanti

Dopo quella sul salario minimo, le opposizioni hanno presentato una proposta di legge unitaria sulla “riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario”, i cui primi firmatari sono Fratoianni, Conte, Bonelli e Schlein. L’iniziativa di Pd, Avs e M5s (mancano Azione, +Europa e Iv) riunisce tre precedenti ddl. Per poter fare una sintesi è stato preso il peggio delle tre proposte.

 

La tesi è questa. Ridurre l’orario di lavoro dalle attuali 40 ore settimanali fino a 32 ore (8 ore per quattro giorni), mantenendo la stessa retribuzione mensile, porta benefici per tutti: le imprese verrebbero ripagate con un aumento della produttività e i lavoratori con un maggiore tempo ed energie a disposizione per la vita privata.

 

Non solo. Vi sarebbero anche, sostengono i proponenti, delle esternalità positive per la collettività: il maggiore tempo libero dei lavoratori produce una aumento dei consumi legati ai settori della cultura e dell’intrattenimento, “generando crescita e lavoro”; le aziende inizierebbero a farsi concorrenza a colpi di aumenti salariali, anziché sul contenimento dei costi; ci sarebbe un “riequilibrio di genere” tra uomini e donne nei compiti famiglia-lavoro; infine ne gioverebbe anche l’ambiente con un risparmio “dell’impronta di carbonio” dovuta alla riduzione del pendolarismo, oltre che per la riduzione  dei “consumi insostenibili” di “cibi confezionati” e “pasti pronti”.

 

La descrizione di questo paese di Bengodi fa sospettare ai più diffidenti che c’è una fregatura. La domanda più banale, che si porrebbe non un economista ma un semplice uomo della strada, è questa: ma se tutti ci guadagnano e nessuno ci perde, per quale ragione aziende e sindacati non si sono già organizzati in tal senso? Se imprenditori e lavoratori vogliono passare a un sistema produttivo che prevede meno ore e/o meno giorni di lavoro, non devono certo aspettare una legge delle opposizioni. Possono già farlo. Come peraltro dimostrano diversi casi sperimentali, in Italia e all’estero.

La proposta delle opposizioni sostiene che c’è bisogno di un incentivo, ovvero di un sussidio. E anche molto generoso: i datori di lavoro che riducono l’orario di lavoro avranno diritto a un taglio dei contributi previdenziali a loro carico che va dal 30% al 60%, a seconda della dimensione dell’impresa e della “gravosità” delle attività svolte. I proponenti si premurano di escludere il settore agricolo e il lavoro domestico, come già accaduto per la proposta sul “salario minimo”: braccianti e badanti devono lavorare tanto ed essere pagati poco. Questo è un punto fermo per i progressisti. 

 

La norma presenta almeno due contraddizioni. La prima, sottolineata da Tommaso Nannicini sulla Stampa, è che se, come sostengono i proponenti, la riduzione dell’orario di lavoro aumenta la produttività non c’è bisogno di incentivi: sono imprese e sindacati a decidere come redistribuire l’incremento di produttività, se in aumenti di salario oppure in riduzioni di lavoro.

 

La seconda contraddizione riguarda le risorse stanziate per lo sgravio contributivo: 275 milioni. Molto poche. Basta considerare che la decontribuzione introdotto dal governo Meloni, pari a 6-7 punti, costa circa 11 miliardi per 11 milioni di lavoratori. In questo caso, lo sgravio è dal doppio al triplo (da 7 a 14 punti su 24 totali a carico dei datori di lavoro), e pertanto con 275 milioni verrebbero coperte poche decine di migliaia di lavoratori. Da qui derivano due ipotesi.

 

La prima è che i costi sono eccessivamente sottostimati, e che quindi ci potrebbe essere un’esplosione della spesa in stile Superbonus. La seconda è che l’idea non è appetibile neppure se stimolata con un generoso incentivo: sono Pd, Avs e M5s a non credere a questi presunti benefici – in termini di produttività, crescita e occupazione – se pensano che così poche imprese farebbero richiesta del bonus.  

 

Ciò che invece si prospetta è che a ridurre l’orario di lavoro saranno quelle aziende più grandi e produttive che lo avrebbero fatto comunque (gli stessi proponenti citano le  sperimentazioni di Intesa Sanpaolo, Mondelez, Lamborghini e Luxottica), ma prendendosi in omaggio un grosso incentivo. Così l’incremento di produttività lo incamera l’impresa via decontribuzione, mentre a pagare sono i contribuenti che continuano a lavorare 40 ore a settimana.

 

La proposta originaria di Fratoianni prevedeva bonus più contenuti e una patrimoniale sui ricchi per finanziare lo sgravio. Per far contento Conte e il M5s è stato inserita la possibilità di un inutile referendum. Mentre il contributo del Pd di Schlein è stato alzare il bonus a favore delle imprese ed eliminare la patrimoniale. Per avere la certezza che a pagare saranno tutti i contribuenti, ma soprattutto badanti e braccianti: gli unici che per legge non riceveranno alcun beneficio.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali