La rivoluzione che serve all'Italia riguarda le università. Cambiare le regole (e le classifiche) si può

Lorenzo Bini Smaghi

Gli altri lati del piano Draghi. Eliminare i colli di bottiglia che impediscono di veicolare risorse verso i veri centri di eccellenza

Commentando il Rapporto Draghi, l’Economist ha titolato in modo un po’ lapidario: Buone idee, ma chi pagherà? La discussione sulle 400 pagine del documento rischia di arenarsi contro due ostacoli. Il primo riguarda la capacità di reperire i circa 800 miliardi di euro all’anno necessari per finanziare le varie proposte. Il secondo ostacolo è la mancanza di volontà politica di rafforzare i poteri dell’Unione europea. L’Europa si fa con le crisi, ripeteva Jean Monnet. Il Rapporto Draghi sostiene che senza riforme e investimenti l’Europa rischia una crisi esistenziale. Ciononostante, la classe politica europea non sembra intenzionata a cambiare passo. Cosa fare allora? Piuttosto che aspettare la prossima crisi, o che si crei il consenso per devolvere nuovi poteri all’Ue, ci si può chiedere se alcune delle proposte del Rapporto non possano comunque essere realizzate, magari in modo diverso. Un esempio riguarda quello che viene considerato come uno dei principali ostacoli all’innovazione in Europa, ossia il basso numero di istituzioni accademiche di eccellenza. Ciò incide negativamente sulla capacità di ricerca e di innovazione, sull’attrattività per il capitale umano e fisico e sulla dinamica imprenditoriale.

    
Il Rapporto Draghi cita alcune classifiche internazionali, dalle quali emerge, ad esempio (secondo il QS Rankings), che tra le 50 migliori università al mondo 16 sono statunitensi, otto cinesi e solo quattro dei paesi dell’Unione europea (due francesi e uno in Germania e nei Paesi Bassi). 

  
La domanda da farsi è se per migliorare il posizionamento delle nostre università e colmare il divario con gli Stati Uniti sia assolutamente necessario far ricorso a iniziative e a fondi europei
Come sottolinea il Rapporto, il sistema universitario del continente soffre non solo della dispersione delle risorse destinate alla ricerca ma anche dei problemi di governance degli atenei, derivanti dai vincoli burocratici, dall’assenza di discrezionalità decisionale, che riguarda in particolare i percorsi di carriera e le basse remunerazioni dei ricercatori. Queste criticità nascono a livello dei singoli paesi e riguardano principalmente la normativa del lavoro, il trattamento fiscale, il carico burocratico, e le autonomie decisionali lasciati agli atenei, oltre al modo in cui vengono allocate le risorse, spesso non condizionate al raggiungimento di determinati obiettivi. Superare queste criticità richiede innanzitutto interventi a livello nazionale. 

    
Aumentare le risorse europee è fondamentale, ma diviene efficace solo se prima vengono eliminati i colli di bottiglia e le distorsioni che impediscono di veicolare le risorse verso i veri centri di eccellenza

    
L’esperienza mostra che ciò è possibile, anche in Europa. Alcuni paesi, come il Regno Unito, che ha ben 8 università tra le prime 50 al mondo e la Svizzera, con 2, hanno ottenuto ottimi risultati riformando i loro sistemi. Se i paesi dell’Unione europea seguissero quell’esempio, gran parte del divario verrebbe colmato.

   
L’Italia è uno dei paesi con maggior ritardo. Non c’è nessun ateneo italiano tra i primi 100 al mondo. Vi sono tuttavia casi specifici di eccellenza, che riguardano alcune facoltà. Solo per fare alcuni esempi, la Bocconi è al 9° posto al mondo tra le facoltà di Business e management e al 16° tra quelle di Economia. Il Politecnico di Milano è al 9° posto in Ingegneria meccanica, al 12° in Ingegneria civile e al 27° in Ingegneria chimica; quello di Torino è al 28° posto in Ingegneria meccanica e 33° in civile. La Sapienza è in 32° posizione in Fisica. La Statale di Milano è al 33° in Farmacia e al 34° in Veterinaria.

   
Questi risultati mostrano che è possibile, anche per le facoltà italiane, stare al passo con le eccellenze, forse non in tutti i settori ma in una parte rilevante. Per trasformare questi casi isolati in un numero significativo di eccellenze accademiche bisogna cambiare le regole e i comportamenti, in particolare per quel che riguarda la selezione, la carriera e la remunerazione dei ricercatori e dei docenti. Ciò richiede, in primo luogo, un diverso sistema di erogazione delle risorse finanziarie, sia da parte dello stato sia di quegli enti – come le fondazioni – che sostengono la ricerca. Il criterio principale deve essere il merito e il raggiungimento dell’eccellenza, misurabile anche attraverso il raggiungimento di posizioni di vertice nelle classifiche internazionali. 

  
Ci vuole soprattutto volontà politica, per far fronte a chi, da anni, si oppone al cambiamento.

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