Legge di bilancio
Manovra e ipocrisie. Cosa non torna nei piani fiscali del governo
"Bene la chiarezza di Giorgetti sul debito, ma l’approccio di questo governo non affronta temi di fondo come la longevità, che costringerà i giovani a lavorare fino a ben oltre i 70 anni per pagare le pensioni”, ci dice Andrea Tavecchio
Altro che extra profitti. Eccetto far pagare di più ai proprietari di immobili che hanno usufruito del superbonus e il ventilato aumento delle accise sui carburanti, poco si sa dei “sacrifici” chiesti dal governo Meloni a tutti gli altri. “Finora l’unica novità è rappresentata dal messaggio trasmesso dal ministro del Tesoro, Giancarlo Giorgetti – dice al Foglio Andrea Tavecchio, fondatore della Tavecchio&associati e già consulente di vari governi in materia fiscale e tributaria – il quale ha preso le distanze dal mantra del debito buono e prova a raccontare le cose così come stanno e cioè che siamo un paese indebitato e che c’è una situazione complicata da gestire. Questo è a mio avviso un elemento positivo, ma l’approccio di questo governo in campo fiscale, e direi della politica in generale, resta aleatorio e ipocrita perché non affronta temi di fondo come la longevità che costringerà i giovani a lavorare fino a ben oltre i 70 anni per pagare le pensioni”.
Ma restiamo sulla manovra e sulle tasse di oggi. Dove sbaglia il governo nel cercare margini per aumentare le entrate fiscali? “Non servono nuove imposte, serve fare in modo che le tasse le paghino tutti con l’aiuto della tecnologia per incrociare i dati. Il resto è populismo. La storia degli immobili del superbonus ne è la dimostrazione: catasto e agenzia delle entrate hanno tutti gli strumenti per adeguare le rendite di tutti i cespiti ai valori di mercato allineando di conseguenza le aliquote, a partire dall’Imu, come peraltro è già previsto dalla legge. Invece si vuole far pagare di più solo chi ha usufruito degli incentivi edilizi per le ristrutturazioni”.
Perché, secondo lei? “E’ una precisa scelta politica. Si fa finta di non vedere le sacche di capacità contributiva nascoste che si potrebbero fare emergere senza sforzo e senza costi aggiuntivi. Per esempio, gli ultimi dati sull’aumento del contributo fiscale da parte delle partite Iva conferma che la fatturazione elettronica è stata una scelta giusta. Questo sarebbe il percorso corretto da seguire senza inventarsi nulla di nuovo”. L’idea iniziale del governo sembrava quella di non colpire le persone fisiche ma i profitti delle aziende, come si è scelto di fare in Francia, e persino una nota di precisazione del Mef all’intervista rilasciata da Giorgetti a Bloomberg escludeva nuove tasse per “gli individui” indicando banche e imprese attive nella difesa come soggetti a cui chiedere un contributo. Poi si è arrivati agli immobili e alle accise sui carburanti, che riguardano prevalentemente i privati. Intanto, però, in Francia si è deciso di aumentare il prelievo per un anno o due a circa 300 aziende con un fatturato superiore a 1 miliardo. Perché non si può fare anche in Italia? “La mossa del primo ministro francese, Barnier, potrebbe essere motivata anche da un po’ di demagogia contro i ‘ricchi’, ricordiamo che il suo governo è di minoranza e che la Francia è probabile che torni al voto tra meno di 12 mesi. Da un punto di vista tecnico, una manovra del genere in Italia sarebbe pericolosa anche perché si darebbe il segnale (sbagliato) che ‘piccolo è bello’. Le imprese, invece, sono belle se grandi e forti come hanno ben capito negli Stati Uniti dove anche di recente l’Inflaction Reduction Act ha dato forti sovvenzioni al sistema produttivo per crescere. Inoltre, se Trump vincerà le elezioni presidenziali, una delle prime cose che ha detto che farà ridurre le imposte alle imprese. Questo metterà in condizioni di ulteriore svantaggio l’economia europea nei confronti degli Stati Uniti che già può contare su un mercato dei capitali molto più forte”.
Secondo Tavecchio, in un contesto globale di competizione fiscale, le grandi imprese italiane ed europee, comprese quelle del settore della difesa, impiegherebbero poco a decidere di dirottare gli investimenti dove la pressione è minore. Così restano solo le banche a cui chiedere un contributo, cosa pensa? “Le banche già pagano oltre il 35 per cento sugli utili e successivamente i loro azionisti, che sono anche tanti piccoli risparmiatori, versano il 26 per cento sui dividendi che ricevono. In tutto stiamo parlando di un prelievo di circa il 60 per cento. Quello che trovo sbagliato è proprio il concetto di extra profitti: quando gli utili aumentano di conseguenza aumenta anche il gettito che entra nelle casse dello stato. Ma ammesso che fosse possibile trovare un modo per far aumentare il contributo fiscale del settore del credito, è completamente sbagliato parlarne ex post. Non si cambiano le regole mentre si gioca”.