Conti pubblici
I dati che spiegano dove il Mef si gioca tutto per respingere la propaganda
L’economia italiana arranca: crescita ferma allo 0,6 per cento, debito elevato e sfide future. Tra incertezze globali e nuove regole di bilancio, il governo dovrà trovare un compromesso per evitare seri problemi
Come sta l’economia italiana? Cerchiamo di sottrarci al battibecco politico quotidiano e di tratteggiare un’analisi dell’economia del nostro paese il più possibile oggettiva. Usiamo buone fonti, prima fra le quali la Banca d’Italia. È appena uscito il bollettino economico trimestrale, che fa il punto periodico degli andamenti delle economie internazionale e italiana. Lo useremo come guida, insieme con le valutazioni dell’Ocse, cominciando dall’economia del mondo. Osserviamo subito come i conflitti che agitano il pianeta, non essendo degenerati in guerre totali, abbiano finora prodotto effetti limitati sulle economie. Non si sono viste profonde recessioni mondiali come quelle causate dalla crisi finanziaria globale nel 2009 o dalla pandemia di Covid nel 2020, e meno male. E’ però aumentata nel mondo l’incertezza sul futuro e le economie arrancano; ciascuna è frenata da suoi propri problemi: qualche scricchiolio del mercato del lavoro negli Stati Uniti, la crisi perdurante del settore immobiliare in Cina, gli affanni dell’economia tedesca in Europa; tutte sono colpite dal rallentamento del commercio mondiale, che più risente del clima d’incertezza generale.
L’Ocse prospetta un aumento della produzione di tutto il mondo, quest’anno e il successivo, appena superiore al 3%, che è poco pensando ai paesi in via di sviluppo che devono correre tanto, siamo decisamente al di sotto della media del decennio precedente la pandemia. Il commercio mondiale potrebbe crescere ancor meno. L’economia italiana condivide questa mediocrità e ci mette del suo. Ci si è accapigliati su quanto il Pil italiano possa crescere quest’anno, se dell’1% come scritto nel Piano strutturale di bilancio (Psb) pubblicato dal governo alla fine di settembre o dello 0,8% come i dati nel frattempo diffusi dall’Istat farebbero pensare. In realtà la Banca d’Italia ha infine stimato ieri una crescita del Pil dello 0,6%, sebbene prefigurando un’accelerazione all’1,0% e all’1,2% nei prossimi due anni.
Per quest’anno è un risultato deludente, inferiore di due decimi al tasso di crescita che la BCE indica per l’intera area dell’euro. La ripresa dopo il precipizio causato dalla pandemia era stata in Italia più vivace che nel resto d’Europa, ci eravamo abituati male, ora si torna al passato. Ci tengono su i consumi, per un recupero del potere d’acquisto delle famiglie, ci frenano gli investimenti, per un costo del credito ancora alto e per il venir meno di parte degli incentivi edilizi. L’anno prossimo l’Europa potrebbe a sua volta accelerare all’1,3% secondo la BCE. Ma non si vedono in prospettiva, né nell’economia europea né tantomeno in quella italiana, slanci straordinari. In questo quadro poco entusiasmante vanno collocandosi le politiche di bilancio dei paesi dell’area dell’euro. Come è noto, lo scorso aprile è stato concordato da tutti i paesi dell’area un rilevante cambiamento di regole in materia di bilanci pubblici. Il documento più importante è diventato appunto il piano strutturale di bilancio che ogni paese è tenuto a produrre e a discutere con la Commissione europea, dall’orizzonte temporale estensibile fino a sette anni e basato su un’analisi di sostenibilità del debito pubblico nel medio-lungo periodo. Sono regole più flessibili, più ragionevoli. Ma l’Italia è un caso particolarmente delicato, per la elevatezza del debito e per la ricorrente tendenza a presentare ampi deficit di bilancio.
Un debito così alto costa molto e la spesa per interessi assorbe risorse, raccolte coi tributi, che potrebbero essere usate in capitoli di spesa più fruttuosi come l’istruzione o più lodevoli come la sanità. Il Psb italiano appare consapevole di questa vulnerabilità ed è tutto sommato equilibrato e credibile nel disegnare un percorso di graduale rientro dagli eccessi del passato, grosso modo coerente con quello indicato dalla Commissione europea. Ma ora si tratta di cominciare a dire, con il disegno di legge di bilancio che sarà presentato dal governo il 20 ottobre, come verrà assicurato in concreto il rispetto degli obiettivi intanto fissati per il 2025 dal Psb. Si susseguono indiscrezioni sulle intenzioni del governo e reazioni di questa o quella parte politica, che fanno gridare i benpensanti allo scandalo di una cacofonia intollerabile. Non è certo uno spettacolo edificante, ma bisogna essere realisti: il denaro occorrente a ridurre il deficit qualcuno deve tirarlo fuori, contribuenti (tutti o parte), beneficiari della spesa pubblica (tutti o parte) o entrambi; il dibattito politico all’interno del governo su quali elettori scontentare si sarebbe svolto anni fa in segrete stanze, ora è spiattellato in pubblico attraverso i media; la cacofonia è sgradevole e inefficiente, ma così oggi funziona la politica nelle democrazie.
Tocca al ministro dell’Economia alla fine mettere firma e faccia sul progetto di legge di bilancio. Egli è un politico di lungo corso organicamente legato a uno dei tre partiti che sostengono il governo, tutti più corporativi che liberali, schierati ciascuno a difesa di una fetta di contribuenti/beneficiari. Ma il ministro è anche un uomo pratico che parla continuamente con gli interlocutori europei. Confido che saprà trovare un onorevole compromesso fra propaganda e realtà. Altrimenti saremmo davvero nei guai.