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a spizzichi e bocconi

La corsa alle privatizzazioni. Ma non tutti i gioielli d'Italia si possono vendere

Stefano Cingolani

Giorgetti ripete ciò che Draghi diceva 32 anni fa, Meloni incontra i potenti del capitale, un tempo nemici. Bisogna incassare. Poste, Ferrovie, porti, Mps, Eni, Enel: quali aziende controllate dallo stato sono davvero strategiche?

Il Britannia? Non scherziamo. L’Atlantic Council. L’èra prima delle privatizzazioni è cominciata il 2 giugno 1992 a bordo dello yacht della regina d’Inghilterra, alla presenza del fior fiore della finanza angloamericana invitata dall’ambasciata britannica e dagli “Invisibili”, una lobby di uomini d’affari e giornalisti. Speaker d’onore Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro il quale venne, vide, parlò e se ne andò, mentre gli eccellentissimi ospiti stappavano champagne. Disse cose che a rileggerle c’è da meravigliarsi non solo perché ancora attuali, ma perché sono rimaste in gran parte parole scritte sulla sabbia.

L’èra seconda delle privatizzazioni comincia a New York lunedì 23 settembre 2024 nella Ziegfeld Ballroom. Siamo pronti a scommettere che lo scriveranno gli storici, ma prima ancora gli esegeti del nuovo Zeitgeist. Il premio dell’Atlantic Council è stato concesso a Giorgia Meloni insieme al presidente del Ghana, Nana Addo Dankwa Akufo-Addo, al primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, e alla vicepresidente della holding sudcoreana CJ Group, Miky Lee, per aver promosso “la leadership americana e accordi internazionali basati sul ruolo centrale della comunità atlantica nell’affrontare le sfide del XXI secolo”, come recita lo slogan dell’influente pensatoio atlantista.

 

Giorgia nella sua missione a stelle e strisce non si è risparmiata: ha incontrato uno dopo l’altro i big boss di Alphabet-Google Sundar Pichai, di OpenAI Sam Altman, della Motorola Greg Brown, a parte Elon Musk che ella stessa ha voluto come cavalier offerente perché anch’egli è più bello dentro che fuori. Il berretto con su scritto Maga e la t-shirt Occupy Mars che scopre la pancia hanno fatto rabbrividire gli esteti: horribile visu direbbe chi conosce il latinorum (ce ne sono, eccome, anche nel governo). Ma non è tutto, pochi giorni dopo Larry Fink, gran capo e cofondatore di BlackRock, il più panciuto fondo d’investimento mondiale, e Brad Smith, vicepresidente di Microsoft, hanno calcato le scale di Chigi (come chiamano il palazzo dove risiede il presidente del Consiglio dei ministri). Un turbinio di strette di mano, non solo per conoscere i potenti del capitale un tempo nemici giurati, ma per facilitare se non proprio combinare accordi nell’interesse della Nazione. Perché c’è poco da scherzare, l’Italia sarà anche cresciuta più della Francia e della Germania, ma adesso l’economia perde colpi e lo stato italiano è a secco. Fare il bilancio del 2025 è difficile, proiettarsi in avanti fino alla fine della legislatura sarà durissimo.
“Privatizzare è inevitabile”, aveva detto Draghi 32 anni fa e aveva aggiunto: ma ci vuole una chiara scelta su che cosa è strategico e una politica che accompagni l’intero processo. Il Movimento sociale lo aveva messo sotto accusa per aver ceduto al complesso pluto-giudaico-massonico. La Lega non gli ha mai perdonato la “svendita dei gioielli di famiglia”. Silvio Berlusconi giurava che lui avrebbe fatto di meglio. Adesso Giancarlo Giorgetti ripete le stesse parole di Draghi. Quanto a Giorgia Meloni che si batteva per le ri-nazionalizzazioni, cerca un modo per sbarcare il lunario e vuole ricavare ben 20 miliardi di euro in tre anni, cioè fino allo scadere del suo mandato. Ma per carità, “non si tratta di svendere né di privatizzare per privatizzare”, si tratta di incassare, senza però rinunciare ai dividendi che vengono dalle aziende controllate: quest’anno sono più di tre miliardi di euro.
Sono 3.448 le aziende italiane controllate dallo stato, quante di loro possono essere vendute del tutto o in parte? Tredici società detenute dal Tesoro direttamente o con la Cassa depositi e prestiti, sono già in Borsa: Banca Mps, Enav, Enel, Eni, Fincantieri, Leonardo, Italgas, Poste italiane, Rai Way, Saipem, Snam, STMicroelectronics, Terna. Il loro valore azionario complessivo sfiora i 70 miliardi di euro. Si aggiungono poi altre imprese nelle quali sono quotati strumenti finanziari utilizzati: Amco, Invitalia, Cdp, Ferrovie dello stato italiane, Rai, Sace. Per quattro società, la percentuale di partecipazione dello stato è superiore al 50 per cento: Enav (53,3 per cento), Fincantieri (71,3 per cento), Poste (64,2 per cento), Rai Way (65 per cento). Le partecipazioni minori si hanno in Enel (23,6 per cento), Mps (26,7 per cento), STMicroelectronics (28,2 per cento), Terna (29,8 per cento), Eni (30,5 per cento), Leonardo (30,2 per cento), Snam (31,3 per cento).

 

Che cosa è davvero strategico? Lo è senza dubbio l’Eni che sotto la guida di Claudio Descalzi ha disincagliato l’Italia dal gas russo. Non solo, è tornata a perforare in mezzo mondo scovando e sfruttando giacimenti importanti come Zohr al largo dell’Egitto, la più grande scoperta di metano nel Mediterraneo. E’ frutto delle capacità tecnologiche dell’azienda e del supercomputer capace di fare 70 miliardi di operazioni al secondo, con il quale i geologi dell’Eni hanno potuto simulare e capire che cosa c’era là sotto la crosta terrestre coperta dalle acque. Dal 2012 al 2022 sono stati scoperti giacimenti di gas in Egitto, Mozambico, Vietnam e Indonesia; e giacimenti di petrolio in Messico, Costa d’Avorio, Ghana, Norvegia e Angola. L’Eni è una classica Oil & Gas company, tecnologicamente avanzata, sta sperimentando anche l’uso dell’idrogeno e la fusione nucleare. La sua posizione finanziaria è robusta con forti flussi di cassa in entrata e un debito basso. Le riserve sono sopra la media del settore, sia per quantità sia per qualità. Si è data l’ambizioso obiettivo di azzerare la CO2 entro il 2050, anche se adesso Descalzi sostiene che la strategia europea è troppo ambiziosa e dettata da “ideologie ridicole di minoranze”. E’ vero che Eni si muove senza avere dietro il supporto che hanno altre sue concorrenti. L’Italia compra gas, non lo produce, se non in minima parte. Gli Usa investono nello shale gas e hanno raggiunto l’autosufficienza energetica. Altre imprese come la stessa Total sono più diversificate. In ogni caso è un’azienda di punta molto ambita. In borsa vale circa 48 miliardi di euro. Dal 2021 quando è cominciato il disincaglio dalla Russia a oggi il titolo è balzato da 6 a 14 euro, tornando ai livelli del 2019. 

 

Un primo pacchetto di Eni è stato già ceduto nel maggio scorso: si tratta del 2,8 per cento che ha fruttato al Tesoro un miliardo e 366 milioni. Il ministero dell’Economia che aveva in portafoglio una quota del 4,79 per cento scende al 2 per cento, ma ad assicurare il controllo pubblico c’è il 28,5 per cento della Cassa depositi e prestiti che fa capo anch’essa al Mef. A sua volta Eni ha ceduto il 10 per cento di Saipem incassando 393 milioni di euro. A questo punto detiene il 21 per cento della società che si occupa di infrastrutture petrolifere. In Borsa ci si aspetta che possa cedere il 10 per cento di Plenitude, che produce energie rinnovabili e vende gas ed energia elettrica a famiglie e imprese. L’intera società viene valutata 10 miliardi di euro, quindi la casa madre potrebbe ricavare un miliardo. A trent’anni dalla prima parziale privatizzazione si può dire che il tuffo nel mercato ha fatto solo del bene all’Eni.

Lo stesso vale per Enel. L’ex ente elettrico nato nel 1962 con la nazionalizzazione oggi è tra le principali imprese al mondo per fatturato, prima utility integrata d’Europa con una capitalizzazione di Borsa che supera i 70 miliardi di euro. Già rivale di Eni, usa il gas anche se ha sempre puntato su fonti diverse dagli idrocarburi, prima con l’idroelettrico e il carbone, poi con l’energia atomica. Il progetto di dieci centrali nucleari era arrivato a metà strada quando nel 1987 il no al referendum imprime un colpo che avrebbe potuto essere mortale. Eni prevale: ricordate “il metano ti dà una mano”? Franco Tatò nella seconda metà degli anni 90 risana l’azienda e avvia una diversificazione persino eccessiva (con i telefonini di Wind). Enel si internazionalizza, nel 2006 compra Endesa, il primo gruppo energetico spagnolo. Con la gestione di Starace, dal 2014 fino all’anno scorso, punta sulle fonti rinnovabili: Enel Green Power diventa una delle prime al mondo con 750 impianti in 16 paesi, mentre vengono riconvertite 23 centrali termoelettriche in Italia. Anche Enel s’impegna alla decarbonizzazione totale entro il 2050. I segnali lanciati dalla nuova gestione, con Paolo Scaroni alla presidenza (per lui è un ritorno dopo la gestione 2002-2005) e Flavio Cattaneo, sono che l’azienda si è spinta troppo all’estero e deve per così dire ri-nazionalizzarsi, raffreddando l’enfasi sulle rinnovabili e riducendo l’enorme debito generato soprattutto dall’acquisto di Endesa: oggi è tra i 55 e i 57 miliardi. Lasciato il Vietnam, ceduto il 49,99 per cento del solare in Spagna e la distribuzione in Lombardia alla A2A, continua il dimagrimento che potrebbe coinvolgere anche BlackRock, il quale possiede il 5 per cento della società. 

Prima di recarsi a Palazzo Chigi, Fink ha incontrato Cattaneo. Si dice che potrebbe essere interessato ad acquisire alcuni siti come le centrali a carbone in via di dismissione come quelle di Civitavecchia e di Brindisi, già connessa alle reti elettrica e logistica, per trasformarle in centri dati da affittare a operatori come Microsoft, Amazon, Apple, OpenAI. Alcuni hanno parlato di una uscita dalla Spagna o della vendita almeno di una quota di Endesa. Anche Enel è un work in progress. Visto che l’azionariato è molto diffuso, il Tesoro è azionista di riferimento con meno del 24 per cento, “ma è evidente che non può scendere di molto”, scrive il rapporto dell’osservatorio dell’Università Cattolica. 

Certo lo stato non mollerà Leonardo, il gruppo della Difesa che ha avuto tra i migliori risultati in Europa lo scorso anno. Dal 2021 il titolo è raddoppiato, oggi capitalizza 12 miliardi di euro. Più altalenante Fincantieri che dipende molto dal mercato delle navi da crociera. Si tratta di vedere se e come, nel turbinio di alleanze, matrimoni, incroci strategici, “cielo, terra e mare” come si diceva un tempo, possono trovare la sede migliore per svilupparsi dentro e fuori dal perimetro del capitalismo di stato. Si è parlato di una fusione, per ora si tratta di “collaborare” come ha detto Roberto Cingolani, il timoniere di Leonardo.
“Le Poste sono un gioiello che non si vende”, proclamava Giorgia Meloni nel 2018, oggi il 13 per cento è sul mercato. E forse è solo l’inizio. Cdp possiede il 35 per cento, il Mef il 29,26 per cento, una presa eccessiva. La questione è se scendere o no anche sotto il 51 per cento. Secondo un’analisi della banca d’affari Equita, “ai prezzi attuali, la cessione del 13 per cento di Poste garantirebbe al governo un incasso di circa 2,2 miliardi di euro”. I sindacati contestano che dal ricavato della vendita lo stato otterrebbe un risparmio inferiore a quanto incassa. Poste ha proposto un dividendo di 0,80 per azione (riferito al bilancio 2023), con un aumento del 23 per cento rispetto al precedente, per un totale di un miliardo e 36 milioni di euro. 

 

Sono davvero strategiche per lo stato le Poste, tanto da non poter essere gestite dai privati? L’azienda perdeva 2 miliardi di euro nel 1990, ha raggiunto un utile di 2 miliardi e 620 milioni nel 2023. Capitalizza circa 17 miliardi e negli ultimi cinque anni il titolo è cresciuto di quasi il 20 per cento. E’ leader in tanti settori all’avanguardia, dai pagamenti online alle carte prepagate, dalla logistica e la consegna dei pacchi alle assicurazioni, fino a giocare un ruolo di supplenza di una pubblica amministrazione rimasta fuori dalla storia (per esempio per i passaporti). Durante il Covid senza la piattaforma vaccini non sappiamo come ne saremmo usciti. Certo ci sono ancora le file agli uffici postali, gli avvisi delle raccomandate sono difficilmente comprensibili, gli orari di apertura e chiusura non sono quelli che sono, ma Poste italiane è una storia di successo dovuta anche a quattro manager davvero top: Corrado Passera (quattro anni), Massimo Sarmi (dodici anni), Francesco Caio (tre anni) e del Matteo Del Fante (sei anni). Con Del Fante si investe molto nel rapporto tra PostePay e PosteMobile, viene offerta una gamma ampia di servizi ai clienti/cittadini: gas e luce; telefono; pagamenti e fibra ottica. Nel frattempo, cresce il ruolo di Poste Vita, si sviluppa il business della logistica, con l’e-commerce, viene stipulato un importante accordo con Amazon, si rafforza Post Air Cargo (Mistral Air) che viene pienamente inserito nell’e-commerce. Dal 2021 operano due giganteschi hub di smistamento, a Bologna e vicino a Pavia. Poste italiane, che comincia a sviluppare anche una visione internazionale, oggi fa cento mestieri. Ma è necessario che siano tutti in mano allo stato? Certo non è pensabile che un servizio capillare, un ufficio postale sotto ogni campanile, possa dare un utile senza sussidi pubblici. Ma il resto? 

 

Nulla vieta che diventino private anche le Ferrovie, tranne il fatto che una parte dei servizi è sempre in perdita e non sarebbe possibile senza Pantalone. La questione, dunque, è quale polpa è appetibile e quale scorza deve restare nelle mani dello stato. Il disastro ferroviario di quest’anno cominciato in inverno e culminato in estate proprio nel pieno dei viaggi turistici, avrebbe convinto anche Matteo Salvini (nelle vesti di ministro e non di “capitano”) ad accettare una certa privatizzazione. Quale e come? Si potrebbe quotare in Borsa l’intero carrozzone per tirar su un po’ di miliardi. Ma quanto può valere? Il gruppo Fs ha un capitale investito netto di 53 miliardi di euro a fronte di ricavi per quasi 15 miliardi di euro nel 2023; 7,9 miliardi provengono dai trasporti su ferro e su gomma (con la società che possiede anche gli autobus); 4,2 miliardi dall’affitto della infrastruttura e 2,7 miliardi dai contributi dello stato. I costi operativi sono ammontati a 12,6 miliardi, il margine è stato di appena 338 milioni dopo aver restituito gli aiuti di stato e i ristori Covid. L’utile netto è di soli 100 milioni di euro. Insomma, si tratta di un colosso senza sufficienti ritorni economici. In questi casi la via maestra è spacchettare, dividere per estrarre valore, come si dice in gergo. E’ la logica del piano strategico elaborato dieci anni fa. 
A Palazzo Chigi sedeva Matteo Renzi, a Palazzo Sella, quartier generale del ministero dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Le nomine nelle aziende pubbliche portano alla presidenza di Fs l’economista Marcello Messori, il quale pensa che occorra separare la rete dai servizi, mantenere la prima nelle mani dello stato e accettare la libera concorrenza dei treni. Del resto già dal 2008 Italo sferraglia sulla linea ad alta velocità. Messori sostiene non solo lo sdoppiamento, ma una sorta di pulizia dell’intera struttura, anche quella della rete che comprende i binari, il sistema elettrico e delle telecomunicazioni, oltre a parte della logistica e a un ampio patrimonio immobiliare. Anche queste attività andrebbero scorporate per evitare l’effetto carrozzone e rendere più efficiente l’intero servizio. Lo stesso bilancio dell’azienda è poco chiaro perché appare sui libri contabili un massiccio capitale buona parte del quale, però, risulta immobilizzato. Messori non vuole che si venda per far cassa, in tal caso porterebbe al Tesoro meno di quattro miliardi. L’economista ha un progetto più ambizioso: riunire in un’unica società il patrimonio urbano e metterlo tutto sul mercato; cedere a Terna la rete elettrica; trasformare Trenitalia in una holding con tre controllate: alta velocità sul mercato; trasporto locale sovvenzionato; trasporto merci; riportare la rete sotto il controllo diretto del Tesoro. A quel punto Trenitalia potrebbe essere quotata cedendo per cominciare il 40 per cento. Secondo le stime, da tutti questi movimento sarebbero usciti almeno dieci miliardi di euro, ma soprattutto ne sarebbe uscita un’impresa più snella e competitiva. Apriti cielo.
Oggi può entrare in ballo BlackRock, azionista indiretto di Italo con il fondo Global Infrastructure. La rete ferroviaria ha bisogno di enormi investimenti per essere potenziata, non solo rattoppata, compresa l’alta velocità. Il Pnrr ha stanziato una gran quantità di quattrini, ma non bastano, tanti e tali sono i ritardi. Dall’anno prossimo arriveranno anche i treni della compagnia francese Sncf, un vantaggio per gli utenti, in Spagna dove è già presente ha aumentato la concorrenza e fatto scendere le tariffe. Ciò vuol dire che le Ferrovie dello stato avranno un altro concorrente dopo Italo e ancor più robusto. Dunque, ben vengano i fondi d’investimento, ma ci sarà bisogno di trasformare anche Retitalia in una società per azioni e non solo in una dependance di Fs. Torniamo così al vecchio piano, mai realizzato, però l’unico ad avere una solidità economica. 

Larry Fink, da quel che si sa, è interessato a intervenire nei trasporti ad ampio raggio proprio attraverso Global Infrastructure del quale ha completato l’acquisizione. Una delle ipotesi che circolano a Chigi, nel senso del palazzo, è l’apertura dei porti ai privati. Un’operazione complessa perché bisognerebbe trasformare le autorità in società per azioni. Oggi i privati gestiscono i moli, sarebbe più vantaggioso per loro entrare nella proprietà di vere e proprie imprese. Ci sono conflitti di interessi da risolvere e l’antitrust dovrebbe dar fondo a tutti i suoi strumenti. Pensiamo al ruolo che può giocare Msc da Gioia Tauro che già controlla, a Genova dove la società svizzera della famiglia Aponte è entrata in pompa magna. Non ci sono cifre, tuttavia l’operazione avrebbe una ricaduta notevole sullo stato centrale e sulle sue propaggini locali. Il governo vuole vendere anche il 20 per cento di Enav, l’ente per il controllo del traffico aereo, ricavandone 400 milioni di euro. Anche gli aeroporti potrebbero entrare nel grande gioco, alcuni sono già gestiti da privati, si pensi a Fiumicino che fa capo a Mundys (controllata dalla famiglia Benetton con secondo azionista Blackstone), la quale non nasconde di essere interessata a Catania, uno degli scali più importanti. 

 

L’assetto della società Autostrade dopo l’uscita dei Benetton potrebbe cambiare ancora. Oggi fa capo alla Cassa depositi e prestiti (51 per cento) con i fondi Blackstone e Macquarie che si dividono il resto. Rinnovare la rete richiede almeno 44 miliardi di euro, si parla di un accordo con la seconda società italiana che fa capo al gruppo Gavio, mentre sarebbe della partita anche Matterino Dogliani, imprenditore di Cuneo che progetta e costruisce strade (avrebbe offerto 8 miliardi di euro e potrebbe arrivare a 20 secondo indiscrezioni). 

Un altro intreccio pubblico-privato da sciogliere è Open Fiber. Nata da Enel insieme a Cdp, oggi è in mano alla Cassa più il fondo Macquarie. Ritardi nei lavori, confusione persino sulla mappa da collegare alla rete in fibra ottica (il catasto è troppo vecchio e molte abitazioni non esistono più), costi esorbitanti, debiti difficilmente sostenibili (oltre 3 miliardi di euro). Il sottosegretario Alessio Butti (Fratelli d’Italia) ha ammesso che non può andare avanti. L’ipotesi è di fonderla con la società che ha preso la rete Telecom, ma Kkr che la controlla non è d’accordo e in ogni caso vuole dettare le sue condizioni. Il Tesoro ha una quota del 16 per cento, il rischio è che gli tocchi farsi carico dei debiti. 

Un onere ben più pesante grava su Giorgetti attraverso Invitalia che detiene circa il 40 per cento dell’Ilva, ArcelorMittal ne possiede il 60 per cento, ma non la gestisce più. Va avanti una defatigante ricerca di alternative. Secondo il governo c’è la fila di pretendenti (ben 15 gruppi interessati) e sulla stampa ogni giorno ne spunta uno, la cordata di industriali italiani a lungo evocata non ha ancora preso corpo. In realtà ciascuno sembra interessato a un pezzo del polo siderurgico, non a tutto, come ha spiegato Emma Marcegaglia. Ci sono debiti che arrivano a tre miliardi, ci sono ingenti investimenti per il risanamento e la ristrutturazione. Chi paga? E’ andata bene, dopo anni di tira e molla, la vendita di Alitalia (ora Ita Airways), però siamo solo all’inizio del cammino: il Tesoro ha ancora il 60 per cento, Lufthansa il resto, salirà al 90 per cento in tre anni. Incrociamo le dita.
Ultimo, ma certo non per importanza, il Monte dei Paschi di Siena. Sono già state vendute quote significative e ora il Tesoro possiede solo il 26,7 per cento. Otto anni fa quando è stato salvato ne aveva il 64 per cento. La banca è stata ristrutturata e consolidata, però capitalizza appena 6 miliardi di euro e il titolo dalla pandemia in poi ha perso l’83 per cento. Per il Tesoro non è stato certo un buon affare. Mps sta sul mercato ed entra nel nuovo risiko bancario accelerato dalla scalata di Unicredit alla tedesca Commerzbank, destinata, secondo gli analisti, ad avere ricadute anche nel panorama bancario e assicurativo italiano (l’eterna saga di Generali?). Unipol, dopo aver celiato a lungo, non nasconde il suo interesse per Mps, ma prima vuole un accordo commerciale, Carlo Cimbri presidente di Unipol ha negato qualsiasi contatto con il governo. 

Stay tuned, restiamo sintonizzati sulla telenovela. Le nuove privatizzazioni sembrano procedere a spizzichi e bocconi spinte ancora una volta dalla necessità di incassare subito, come accadde alle vecchie privatizzazioni nonostante i moniti di Draghi. La politica industriale è tornata di moda, ma solo a parole; lo stato vuol riprendere un bastone del comando che non è più nelle sue mani; il “mercatismo” sarà pure un virus da debellare, ma alla resa dei conti, quei conti che non tornano, l’emergenza riprende il sopravvento, lo sguardo corto rischia di prevalere di nuovo sullo sguardo lungo, lungo almeno oltre la fine della legislatura.