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in toscana

Crisi dura e violenze etniche: così a Prato crolla il distretto tessile

Dario Di Vico

Non c'è solo il calo verticale di ordini ad affaticare l'economia della città toscana. Ora che indiani, afghani e pachistani sono la nuova manodopera degli imprenditori cinesi esplodono tutte le contraddizioni. Il caso dell'aggressione con spranghe e bastoni di pochi giorni fa 

Bisogna tornare a illuminare la scena di Prato. L’episodio ha avuto qualche menzione nelle cronache giornalistiche ma non ha generato alla fine grande attenzione. Eppure non capita tutti i giorni che, in una delle storiche capitali del manifatturiero italiano e che – per di più – ha alimentato la cultura del Censis, un gruppo di mazzieri italiani possa impunemente assalire con spranghe e bastoni un picchetto di lavoratori pachistani. Che protestavano contro le condizioni schiavistiche in cui sono costretti a lavorare da una ditta cinese di Seano, la Lin Weidong che produce borse e zaini per le griffe internazionali. Un intreccio di nazionalità e di contraddizioni sociali che non è facile trovare altrove e che sembra la trama di un film à la Loach. Contro l’aggressione ci sono state due manifestazioni, una quasi immediata di giovani pachistani e indiani e un’altra – più organizzata – promossa dal Cobas e dalle comunità colpite. La procura sta indagando sull’episodio, ma tutto sommato la solidarietà dei pratesi nei confronti degli operai coinvolti non è andata molto al di là del minimo sindacale e di qualche dichiarazione-spot delle autorità. La verità è che c’è grande spaesamento in città e nel distretto e tutti i protagonisti riferiscono di un clima poco incline all’ottimismo, alla partecipazione e al dialogo interculturale. Ognuno fa per sé sapendo però che per il territorio si preparano giorni bui e per di più difficili da scongiurare. E se una volta tutte le contraddizioni erano interne alle relazioni italo-cinesi, ora ci sono dei soggetti terzi: la manodopera pachistana.

Alla radice di tutto c’è il declino dello storico distretto tessile di Prato, quello che per qualità dei prodotti e rigore della manifattura aveva fatto meraviglie in Italia e all’estero e aveva generato una classe di imprenditori dai contorni rinascimentali. Bei prodotti, tantissimo export, tanti soldi. L’oro di Prato e le storie raccontate dallo scrittore Edoardo Nesi. Da allora ovviamente tanta acqua è passata nel Bisenzio a cominciare dalla nascita di quello che fu chiamato il distretto parallelo cinese. Ovvero dalla proliferazione attorno alla città di ditte possedute da asiatici che furono capaci di inventare un prodotto tutto loro: il pronto moda che veniva venduto nei mercatini del Sud Italia ed esportato nell’Est europeo. Anche in questo caso Prato, suo malgrado, fu testimone di un’altra piccola epopea: tanto lavoro, un prodotto che andava, tanti soldi per gli imprenditori cinesi e anche per qualche proprietario delle mura dei capannoni con passaporto italiano. I due distretti non si facevano concorrenza perché il primo sfornava tessuti e il secondo vendeva capi di abbigliamento. Qualche ottimista al tempo pensò anche di poter far dialogare i due sistemi produttivi e di coinvolgere la grande distribuzione, tipo Zara e H&M, per ottimizzare la produzione e collocarla sul mercato finale adeguatamente. Ma tutto è rimasto nel libro dei sogni.

Oggi non si sogna più. La filiera tessile pratese presenta dei buchi larghissimi e sono rimaste vive e competitive solo alcune lavorazioni come la rifinizione, il resto è alle prese con un calo verticale di ordini. La città del Bisenzio deve fare i conti con una crisi della domanda che forse ha pochi precedenti. Sarà anche colpa delle stagioni ormai ballerine, ma i tessuti di Prato si vendono sempre meno e fare industria è più difficile che mai. Il costo delle materie prime, l’incapacità di organizzare gli acquisti collettivi di gas promessi da molti parlamentari, la scarsissima innovazione, qualche indagine giudiziaria che ha colpito l’imprenditoria locale, sono tutti capitoli di quello che appare come un inevitabile declino. Per ora sappiamo di richieste di Naspi come piovesse ma i sindacalisti temono che nei prossimi due-tre mesi molte aziende faranno ricorso pesantemente alla cassa integrazione o finiranno addirittura per chiudere. Il tavolo di crisi del distretto è stato convocato già più volte e, all’insegna del “fate presto”, è stato chiesto persino l’intervento del governo

Anche agli imprenditori cinesi la fortuna non arride più. Loro sostengono di aver subito tagli del fatturato del 40 per cento (in chiaro o in nero?) e la sensazione è condivisa da chi osserva da vicino cosa sta accadendo. Insomma il pronto moda che usciva dal Macrolotto di Prato e che veniva caricato il sabato mattina sui camion diretti in Polonia o in Moldavia oggi vende molto meno. I cinesi più svegli finanziariamente mettono i soldi nella logistica e non più nell’abbigliamento e la Toscana per loro è meno importante di ieri. Nel frattempo però c’è stata una silenziosa e continua sostituzione della manodopera: prima gli imprenditori sfruttavano senza pietà i connazionali di recente immigrazione e bisognosi di lavorare, ora al loro posto vengono reclutati indiani, afghani e pachistani che in città ormai abbondano richiamati dalla possibilità di essere ingaggiati. Come sia successo che la manodopera cinese sia venuta a mancare e debba essere sostituita è uno dei tanti misteri della città del Bisenzio ma così è. E’ chiaro che quando padrone e operaio erano della stessa nazionalità i conflitti restavano sordi, al massimo venivano mediati dalla comunità cinese; ora che le etnie sono diverse invece esplodono. O almeno fuoriescono. E si viene a sapere delle 12 ore al giorno di lavoro, dei salari da 900-1.000 euro, delle condizioni di schiavitù in cui chi ha bisogno di lavorare è costretto. Da qui la protesta degli operai pachistani, la mediazione dei Cobas e la reazione brutale dell’imprenditore cinese che ha ingaggiato i mazzieri. Di sicuro il pronto moda inventato dai cinesi a suo tempo non è più una fonte di ricchezza immediata, vuoi per l’aumento dei costi di trasporto dei tessuti dalla Cina, vuoi perché comunque qualcosa deve essere successo dentro la comunità. La guerra delle grucce, scoppiata per il controllo della produzione e dei prezzi delle migliaia di appendiabiti utilizzati dalle aziende, ne è stato in qualche modo il segnale. Come il controllo dei flussi della logistica con incendi dolosi di capannoni e irruzioni di uomini armati.


Che cosa ci si può aspettare da una situazione così sfrangiata e poco governabile? Niente di buono, sostengono in città e intanto i più accorti vorrebbero che i fatti di Prato fossero conosciuti di più, che le autorità mettessero in agenda qualche idea per evitare il peggio, vorrebbero che la crisi dei distretti tessili e dell’abbigliamento avesse sui giornali almeno un quinto dello spazio che l’altra grande crisi manifatturiera, quella dell’automotive, comunque giustamente trova. 

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