Orsini e Quota 109 sulle tax expenditure

Luciano Capone

Quello che Confindustria non dice (su se stessa) quando chiede al Mef una revisione delle agevolazioni: le spese fiscali a favore delle imprese sono le più numerose (109) e il loro costo è triplicato negli ultimi anni

Nei prossimi giorni, dopo l’approvazione del Documento programmatico di bilancio (Dpb) da parte del governo, il Mef pubblicherà il Rapporto annuale sulle spese fiscali. I dati non dovrebbero essere molto diversi da quelli del Rapporto 2023, ma ogni anno il governo si ritrova a fare la sua programmazione di bilancio con una foto vecchia di un anno. Si parla sempre di revisione delle tax expenditure, ma probabilmente la prima riforma da fare è quella della tempistica: presentare il Rapporto aggiornato prima dell’inizio della sessione di bilancio e della pubblicazione del Psb a settembre.

In ogni caso, visti anche i margini ristretti della finanza pubblica, la necessità di rivedere radicalmente le spese fiscali è stata, recentemente, evidenziata più volte anche dal presidente di Confindustria Emanuele Orsini. Lo scorso 4 ottobre, il presidente di Confindustria ha incontrato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti manifestandogli la disponibilità dell’associazione a “rivedere le fiscal expenditure”. “Oggi sono 120 miliardi – ha detto Orsini – e noi abbiamo la necessità di trovare 10 miliardi” al fine di “rendere strutturali gli investimenti per l’impresa”. Lo stesso concetto, Orsini lo ha espresso al convegno dei Giovani imprenditori a Capri: “Ci sono 120 miliardi di tax expenditure, pensiamo che 10 miliardi possano essere eliminati e con queste risorse costruire un percorso che sia una politica industriale per il futuro”.

Se questa è l’impostazione, è utile avere un quadro di ciò di cui si parla. Le tax expenditure, secondo l’ultimo rapporto del Mef, erano oltre 120 miliardi nel 2023 ma sono previste essere circa 150 miliardi quest’anno. Se però si escludono quelle locali, il minor gettito nazionale è di 105 miliardi. Mentre le spese fiscali locali sono più o meno rimaste costanti negli anni, attorno ai 40 miliardi, sono quelle nazionali a essere esplose: di numero e di costo. In otto anni, dal 2016 a oggi, le agevolazioni sono passate da 444 a 625 (+40%). Nello stesso periodo, il costo di tutte queste spese fiscali è più che raddoppiato, passando da circa 47 a 105 miliardi.

C’è tanto da intervenire, quindi. Ma non è così semplice. Delle 625 misure censite, 555 risultano ancora vigenti, ma solo per 411 la Commissione del Mef è riuscita a stimare il costo che, per il 2024, è di 96,3 miliardi. Su buona parte di questa massa di denaro è impossibile agire, non semplicemente per vincolo politico ma perché sono scadute e resta solo il conto da pagare. Si tratta di agevolazioni acquisite, ma la cui fruizione è ripartita su più annualità e quindi con un impatto negli anni a venire. Il caso più macroscopico è ovviamente il Superbonus, fortemente sponsorizzato e difeso per oltre tre anni proprio dalla Confindustria. I bonus edilizi sono le spese fiscali più costose e da soli rappresentano circa il 40% dei 96,3 miliardi censiti dal Mef, per un ammontare di circa 40 miliardi annui per il triennio 2024-26.

Restano quindi, di misure censite, circa 55 miliardi. Anche questa massa non è semplice da aggredire, visto che in gran parte si tratta di detrazioni, deduzioni o esenzioni che riguardano la famiglia, il lavoro, la salute, la previdenza o l’istruzione. Si può sicuramente fare una razionalizzazione, ma politicamente è complicato sperare di ricavare molto.

Un capitolo ampio delle tax expenditure è, invece, quello che riguarda le imprese: le agevolazioni sono aumentate notevolmente sia per numero sia per costo. Secondo il Rapporto del Mef, la missione “Competitività e sviluppo delle imprese” è quella che presenta il numero più elevato di spese fiscali con 109 voci: nel 2016 erano quasi la metà (59). Come ha evidenziato l’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb), l’incremento delle tax expenditure a favore delle imprese ha riguardato soprattutto i crediti d’imposta: l’ammontare è quasi triplicato negli ultimi anni, passando da circa 8 miliardi di euro nel periodo 2017-19 a 22,5 miliardi nel 2022.

Questo aumento, oltre agli incrementi delle agevolazioni per investimenti (beni strumentali, aree svantaggiate e sud, ricerca e sviluppo), è dovuto alla risposta a due importanti choc: la crisi Covid e la crisi energetica. Ma a maggior ragione ora si può intervenire per una razionalizzazione. Su questo fronte Confindustria può offrire un importante contributo, dato che le tax expenditure in Italia hanno una caratteristica: sono tantissime, frammentarie e rivolte a gruppi specifici. Come scrive il Rapporto del Mef sono usate “per finalità di scambio con i vari gruppi di interesse”.

Siccome le agevolazioni per le imprese sono diventate 109, la Confindustria potrebbe aiutare il Mef e legittimare il disboscamento che certamente produrrebbe resistente e reazioni dure da parte dei beneficiari. Si potrebbe, insomma, riprendere il filo del Rapporto Giavazzi ai tempi del governo Monti ma con uno spirito collaborativo tra governo e Confindustria.

Ci si dovrebbe porre poi una domanda su cosa fare con questi ipotetici risparmi. Orsini dice di usarli per una “politica industriale per il futuro”. Vista la scarsa lungimiranza della Confindustria per il suo appoggio al Superbonus, la più grande e catastrofica politica industriale degli ultimi decenni, sarebbe certamente preferibile usare il taglio delle tax expenditure per ridurre il deficit e il debito pubblico: la vera politica industriale di cui il paese ha più urgente bisogno.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali