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Legge di bilancio

Perché la manovra di Meloni è un pugno contro la demagogia alimentata per anni dalla destra 

Luciano Capone

La finanziaria della normalizzazione e della delusione. I tabù elettorali della destra di lotta infranti dalla destra di governo

E’ la manovra della normalizzazione e della delusione. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha usato il termine due volte: prima in riferimento all’opposizione che evocava un aumento delle tasse (“Mi dispiace deludere le attese”), poi nei confronti dei ministri costretti a tagliare la spesa (“Ieri in Consiglio dei ministri la delusione era abbastanza diffusa tra i colleghi”). E tutto sommato si tratta di una notizia positiva.

 

                


Il compito del governo era tutt’altro che  semplice:  stabilizzare misure temporanee molto costose (come il taglio del cuneo fiscale: la decontribuzione e il taglio dell’Irpef), all’interno di un piano settennale di riduzione del deficit costruito in accordo con la Commissione europea. Giorgetti è riuscito a farlo, stando ai numeri presenti del Documento programmatico di bilancio, senza aumentare la pressione fiscale che anche nel 2025 si attesterà al 42,3 per cento. Questo era un punto fondamentale per il governo, dato che le previsioni a legislazione vigente stimavano un aumento della pressione fiscale di mezzo punto di pil, dal 42,3 al 42,8 per cento. L’altro grosso vincolo per il governo era, appunto, la riduzione del deficit in attuazione del nuovo Patto di Stabilità di circa mezzo punto di pil l’anno.


All’interno di questi margini molto ristretti, Giorgetti aveva l’obiettivo prioritario di confermare la riduzione delle tasse ai redditi medio-bassi per circa 15 miliardi di euro. Ma con un’ulteriore complicazione. La decontribuzione, prevista come misura temporanea contro la fiammata inflattiva, produceva un effetto fortemente distorsivo alla soglia reddituale di 35 mila euro annui: con un euro in più, magari in arrivo dai nuovi contratti come quelli dei metalmeccanici e del pubblico impiego prossimi al rinnovo, il lavoratore avrebbe subìto una perdita di reddito netto di oltre 100 euro al mese. La manovra, che ha l’obiettivo di rendere strutturale la riduzione delle tasse, aveva quindi il compito da un lato di conservare l’effetto in busta paga e dall’altro di eliminare la distorsione dell’“effetto soglia”. Secondo il contenuto del Documento programmatico di bilancio (Dpb) la soluzione è stata trovata, ma bisognerà vedere nel dettaglio, con un mix di tagli contributivi e detrazioni per il lavoro dipendente che dovrebbe conservare il precedente beneficio ma introducendo uno scivolo (al posto dello “scalone”) fra 35 e 40 mila euro di reddito.


Questo è, in sostanza, il grosso della manovra. La normalizzazione da un lato degli sconti fiscali a termine e dall’altro della politica di bilancio, che finalmente torna in avanzo primario dopo anni di forte e insostenibile deficit. Le coperture per questa operazione derivano, come ha spiegato Giorgetti, dalla “gestione prudente e responsabile della finanza pubblica” che ha prodotto un incremento strutturale delle entrate fiscali. E poi, in misura inferiore, da un taglio delle spese dei ministeri (a eccezione della sanità, unico comparto a ricevere un aumento degli stanziamenti), da un “contributo” chiesto a banche e assicurazioni pari a circa 3,5 miliardi e da una revisione delle cosiddette tax expenditure pari a 1-1,5 miliardi che, verosimilmente, sarà pagata dal lavoro dipendente con redditi medio-alti (il vero blocco sociale “sconfitto” in questo triennio di governo Meloni).


Ma molto interessante nella politica economica di Giorgetti è quello che non c’è. Nessuna ulteriore risorsa per gli anticipi pensionistici, se non un incentivo per restare al lavoro (il contrario della vecchia Quota 100). Nessuna estensione della cosiddetta flat tax oltre gli 85 mila euro. Due capisaldi del repertorio della destra. Ma in questa manovra vengono infranti anche altri tabù della coalizione ora al governo.  Uno riguarda la questione delle accise di gasolio e benzina, che verranno armonizzate a un livello intermedio: una riforma poco popolare, ma richiesta dall’Europa e rinnegata da tutti i partiti di sinistra che ce l’avevano nel programma elettorale. L’altro riguarda il cosiddetto concordato preventivo. Al momento, come è giusto che sia, l’esecutivo prevede zero entrate. Ma, come hanno spiegato sia Giorgetti sia  il viceministro delle Finanze Maurizio Leo, il gettito prodotto dalle adesioni sarà usato per ridurre l’Irpef ai redditi medio-alti. Partite Iva e ceto medio dipendente sono entrambi blocchi sociali vicini al centrodestra, ma il governo Meloni sembra aver capito che per ridurre il carico fiscale a chi è tartassato bisogna che paghi un po’ di più di tasse chi finora le ha evase. In questo contesto di bilancio “Meno tasse per tutti” non è più un’opzione, mentre la lotta all’evasione è l’unica leva per conquistare qualche spazio per la politica fiscale.
 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali