Problemi di aliquota
Crypto gabelle. I problemi delle tasse sui bitcoin e i “nani del web”
Nella legge di Bilancio ci sarà una tassazione al 42 per cento per le plusvalenze da realizzo di operazioni in criptovalute. Forse la vera riforma sarebbe quella di modificare le aliquote in funzione della durata dell’investimento, più che dell’emittente
Il governo ha deciso che, con la legge di Bilancio 2025, le plusvalenze da realizzo di operazioni in criptovalute saranno tassate al 42 per cento. Secondo una ricerca del Politecnico di Milano, a fine 2023 erano oltre 3,6 milioni gli italiani che dichiaravano di possedere criptovalute o token. La decisione ha causato l’ira degli intermediari specializzati nazionali, soprattutto quelli che offrono servizi di custodia, che la giudicano discriminatoria e lesiva dell’innovazione tecnologica, tale cioè da mettere il nostro paese in condizioni di svantaggio competitivo. Inoltre, si argomenta, resterebbe una zona grigia fiscale, relativa agli acquisti di criptovalute a mezzo di Etf e strumenti negoziati su mercati regolamentati, che sono tassati al 26 per cento.
Appare evidente, con la scelta di questa aliquota, che il legislatore ha compiuto una valutazione sulla “meritevolezza sociale” di determinati redditi. Si potrà obiettare sulla natura “bacchettona” di queste scelte, ma sarebbe bene essere consapevoli che questo è un dato di realtà, ovunque. La segmentazione della tassazione dei redditi di capitale non nasce oggi. I titoli di stato e assimilati godono dell’aliquota al 12,5 per cento per palesi esigenze di agevolazione del collocamento del debito pubblico. Ciò discrimina i collocamenti di capitale privato e poi ci tocca leggere che in questo paese i pigri risparmiatori non canalizzano i propri soldi verso la leggendaria economia reale. Forse la vera riforma, in un tempo in cui tutti ripetono il mantra un po’ furbetto della necessità di mobilitare “capitale paziente”, sarebbe quella di modificare le aliquote in funzione della durata dell’investimento, più che dell’emittente. Ma questa resta una bella speranza.
Tornando all’imposizione maggiorata sul bitcoin, possiamo quindi ritenere prive di fondamento le lamentazioni sulla presunta incostituzionalità del maggior prelievo.
Piuttosto, e come sempre accade in materia fiscale, questa decisione causa criticità e distorsioni collaterali. Ad esempio, Il trattamento fiscale sarà simmetrico anche per le minusvalenze? In altri termini, vendere il bitcoin in perdita consentirà robusti crediti d’imposta per compensare entro quattro anni gli utili conseguiti su altri strumenti o vi sarà una asimmetria nel trattamento delle perdite, magari segregando e limitando la compensazione? E ancora, la fiscalità sugli Etf che trattano criptovalute resterà al 26 per cento? Se la risposta sarà affermativa, avremo non solo una comoda backdoor elusiva ma anche il rafforzamento dell’industria finanziaria, che ha ormai catturato le criptovalute, impacchettandole in propri involucri di mercato. All’Agenzia delle Entrate e alle sue circolari l’ardua sentenza.
Parlando di tecnologia, vera e presunta, colpisce anche la decisione governativa di rivedere i parametri che fanno scattare la cosiddetta “web tax”, cioè l’imposta sui servizi digitali, oggi pari al 3 per cento dei ricavi di aziende con fatturato globale di almeno 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 milioni in Italia, e che nell’anno fiscale 2022 ha prodotto un gettito di 390 milioni. Il governo Meloni vuole eliminare le soglie di fatturato e assoggettare al tributo tutte le imprese del settore. Una discreta nemesi per tutti i dichiaratori compulsivi, soprattutto della maggioranza, che nelle ultime settimane hanno ripetuto ossessivamente la frase “dobbiamo tassare i giganti del web”. Ma la coerenza resta risorsa assai scarsa.