Meloni e Giorgetti hanno un debito con il ceto medio tartassato

Luciano Capone

Che fare con il gettito del Concordato preventivo? Il governo è divisto: tagliare l'Irpef ai redditi medio-alti o ampliare la flat tax. Ma finora ha privilegiato gli autonomi e colpito i redditi da lavoro medio-alti

I soldi ancora non ci sono e il governo già litiga su come usarli. Il dibattito nel centrodestra sull’uso delle risorse provenienti dal Concordato preventivo biennale è: taglio dell’Irpef per i redditi medio-alti o estensione della flat tax fino a 100 mila euro? Il nuovo strumento, introdotto dal governo Meloni, punta a un “rapporto collaborativo e semplificato” con le partite Iva. L’Agenzia delle entrate, sulla base dei dati finanziari in possesso, fa una proposta e in cambio il contribuente che l’accetta paga un’aliquota agevolata sul reddito concordato eccedente la dichiarazione dell’anno prima.

Ovviamente, una volta accettata la proposta, gli eventuali maggiori redditi conseguiti nel biennio successivo non verranno tassati. In sostanza, l’erario chiede a chi evade le tasse di pagarne un po’ di più, con la promessa di non fare controlli fiscali. Ciò vuol dire che chi accetta la proposta presume di pagare meno del dovuto e, per giunta, ottenendo la garanzia di averlo fatto nel rispetto delle regole. A questi vantaggi, il governo ha aggiunto anche il ravvedimento speciale per una delle annualità tra il 2018 e il 2022.

Insomma, il ministero dell’Economia – in particolare il viceministro con delega alle Finanze Maurizio Leo e il ministro Giancarlo Giorgetti – puntano molto, anche con una campagna pubblicitaria, al successo del concordato preventivo che si chiuderà il 31 ottobre. Tralasciando il dibattito sulla misura – tra chi la vede come un “condono preventivo” per gli evasori e chi come uno strumento per aumentare la compliance in un paese dove i controlli su tutti sono impossibili e chi, infine, la vede come un’occasione mancata – è interessante concentrarsi sull’uso che il governo intenderà fare del gettito derivante dal Concordato preventivo che, secondo alcune stime preliminari, potrebbe essere attorno ai 2 miliardi. Naturalmente solo dopo il 31 ottobre si saprà quante saranno le entrate effettive.

Si scontrano due ipotesi, dato che verosimilmente le risorse non saranno sufficienti a soddisfarle entrambe. Da un lato c’è la proposta, sostenuta soprattutto da Forza Italia con Antonio Tajani, che punta a un taglio dal 35% al 33% della seconda aliquota Irpef, quella che si applica allo scaglione tra 28 e 50 mila euro (e di conseguenza anche a quelli superiori). Dall’altro la Lega di Matteo Salvini, che invece punta a un allargamento della cosiddetta flat tax (il regime forfetario) per gli autonomi da 85 a 100 mila euro di fatturato. In sostanza, la prima opzione punta a redistribuire a favore del lavoro dipendente il gettito recuperato dagli autonomi che aderiscono al Concordato preventivo, mentre la seconda opzione a riversarlo all’interno della stessa categoria delle partite Iva. La prima strada dovrebbe essere quella privilegiata, anche perché il decreto Anticipi all’art. 7 dice che le risorse devono essere “prioritariamente destinate alla riduzione delle aliquote” Irpef, ma Giorgetti ha lasciato aperta l’ipotesi di un intervento sulla flat tax chiesto da Salvini.

Non c’è dubbio che, tra le due categorie, i redditi medio-alti sottoposti a Irpef siano stati finora quelli tartassati dal governo Meloni. In primo luogo sono i contribuenti da cui il Mef, attraverso il fiscal drag, ha incassato i suoi “extraprofitti” da inflazione. Come mostrano le recenti analisi dell’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb), il drenaggio fiscale – cioè l’aumento delle imposte dovuto all’interazione tra inflazione e aliquote progressive – si è mangiato tutti i tagli dell’Irpef dell’ultimo decennio: dagli 80 euro di Renzi alla riforma Draghi, fino all’accorpamento a tre aliquote del governo Meloni.

La premier e il ministro Giorgetti hanno scelto, attraverso la decontribuzione, la principale misura di politica economica dell’esecutivo, di proteggere i redditi medio-bassi dall’inflazione usando le risorse prelevate dai redditi medio-alti. Un’analisi dell’Upb mostra come fino alla soglia di 35 mila euro la decontribuzione e la riforma Irpef hanno più che compensato il fiscal drag: i redditi medio-bassi hanno quindi, tra Irpef e contributi, pagato meno tasse. Mentre per chi ha un reddito sopra i 35 mila euro il fiscal drag è stato prevalente: ha pagato più tasse di prima.

Inoltre, già nella scorsa legge di Bilancio il governo ha sterilizzato gli effetti del taglio dell’Irpef per i redditi oltre i 50 mila euro tagliando di 260 euro le detrazioni. Infine, in questa legge di Bilancio, Giorgetti punta a recuperare almeno un miliardo tagliando ulteriormente le detrazioni dei redditi più elevati. Invece gli autonomi che negli anni passati hanno ricevuto l’ampliamento della flat tax – oltre a pagare di per sé meno imposte rispetto a un analogo reddito sottoposto a Irpef – sono stati anche protetti dal fiscal drag fino alla soglia di 85 mila euro grazie all’aliquota unica. Per giunta ora, a questi stessi contribuenti, viene offerto il Concordato preventivo biennale: una facoltà che, ovviamente, non è disponibile per chi paga l’Irpef.

Sarebbe quindi davvero paradossale se Meloni e Giorgetti decidessero di usare il gettito che arriva dal Concordato preventivo per abbassare ulteriormente le tasse agli autonomi. Perché, a ben guardare, una limatura dell’Irpef ai redditi medio-alti non sarebbe neppure un taglio delle tasse: sarebbe solo una parziale restituzione dell’aumento della pressione fiscale subìto negli ultimi anni.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali