Lo scenario
Urso Indica la via dei sacrifici per le Big Tech
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy ha un progetto per punire i giganti tecnologici: l’Italia sarebbe il primo paese europeo a introdurre una norma che obbliga i giganti tecnologici a pagare un contributo per l’utilizzo delle reti su cui viaggiano le comunicazioni Internet
La notizia era nell’aria da settimane e alla fine il ministro Adolfo Urso lo ha detto: “Serve un contributo delle big tech agli investimenti sulle reti di telecomunicazioni”. Come ha anticipato Il Foglio, sarà il Ddl Concorrenza, che deve essere approvato dal Parlamento entro la fine dell’anno, a contenere un provvedimento destinato a far discutere: il governo Meloni, infatti, vuole chiedere ai giganti di internet come Google, Amazon e Microsoft, ma anche come Netflix, Disney, Tik Tok, Dazn, Meta, i gli “over the top”, responsabili di almeno il 5 per cento del traffico dati, di partecipare allo sviluppo delle infrastrutture di reti in Italia che oggi sono completamente a carico degli operatori di tlc. A beneficiarne saranno, infatti, Tim, Wind, Vodafone, Iliad e tutte le cosiddette “telco” attraverso un meccanismo che metterà queste società in condizione di ricevere una sorta di pedaggio calcolata a monte dei piani industriali delle piattaforme che sfruttano le reti. Intervenendo a un convegno sul made in Italy, Urso ha detto di credere che un intervento di questa natura “sia assolutamente necessario” e ha fatto capire che all’interno della maggioranza c’è già un sostanziale accordo.
Nei fatti, però, sono ben tre, per adesso, gli emendamenti che contengono l’ipotesi di far pagare un contributo alle big tech, uno per ogni partito di maggioranza: Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega, mentre non si hanno notizie dell’emendamento al quale il Mimit stava lavorando. A leggere le bozze, comunque, sono tutti abbastanza simili perché si basano su un principio, quello del Fair share, la tariffa equa, il cui più grande sostenitore a livello europeo è stato l’ex commissario per il mercato interno, Thierry Breton, ma che Mario Draghi ha sostanzialmente rilanciato nel suo rapporto sulla competitività. Per Draghi, infatti, non solo occorre avviare il processo di consolidamento del settore, e quindi incoraggiare le fusioni tra operatori, contravvenendo all’orientamento antitrust Ue, ma sviluppare le nuove reti in fibra e 5G attraverso investimenti a cui le big tech non si possono sottrarre.
Quando Breton si è dimesso “per motivi personali”, ma, secondo alcuni, in aperta polemica con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nessuno poteva immaginare che Draghi avrebbe impresso un’accelerata proprio al tema a lui più caro e che gli è costato un aspro confronto con le ong per i diritti digitali. Ma le cose cambiano in fretta e oggi sembrano esserci più di ieri le condizioni per riprendere in mano il discorso. O, almeno, è quello che pensa Palazzo Chigi, che sulle tlc, a partire dalla cessione della rete fissa (con il Mef diventato grande azionista della joint venture con privati, FiberCo), intende giocare un ruolo di primo piano. Tanto è diventato un tema centrale per il governo Meloni, che l’Italia sarebbe il primo paese europeo a introdurre una norma che obbliga i giganti tecnologici a pagare un contributo per l’utilizzo delle reti su cui viaggiano le comunicazioni internet in forte crescita. Del resto, assicurano gli esperti, il fatto che in materia non esista una normativa comunitaria, né direttive né regole di armonizzazione, non impedisce ai singoli paesi di legiferare. Tanto più che, a quanto si apprende, non si tratterebbe di un prelievo fiscale, di una tassa a carico delle big tech (come ha fatto la Francia) ma di tutt’altro meccanismo. In pratica, le big tech saranno tenute a comunicare agli operatori tlc le previsioni di traffico per l’anno successivo e su questa base questi ultimi potranno chiedere un ristoro dei costi necessari a garantire lo sviluppo delle reti di telecomunicazioni e la sicurezza delle infrastrutture.
A sovrintendere a tutto questo meccanismo ci sarebbe l’Agcom, l’autorità italiana per le garanzie nelle comunicazioni, che avrà anche il potere di sanzionare i comportamenti scorretti. Non è chiaro, però, chi sarà il soggetto che materialmente riscuoterà i pagamenti per poi girarli pro quota alle telco. Il percorso che questa ipotesi dovrà fare in Parlamento, comunque, è ancora lungo e tutto può accadere considerando che tra i giganti a cui chiedere questo contributo ci sono gruppi come Microsoft che stanno pianificando importanti investimenti in Italia nei data center (secondo Urso ci sarebbe addirittura un soggetto pronto a investire 30 miliardi). La partita, dunque, si presenta molto delicata e non è un caso che Fratelli d’Italia specifichi nel suo emendamento che la soluzione proposta riserva allo stato “un ruolo attivo ma non invasivo”. Un modo per indorare la pillola. Chissà se sarà sufficiente.