La spirale delle telco è finita in una tassa che non lo è (formalmente)
Il ministro Urso ha dato la sua benedizione a una modifica del disegno di legge annuale per la concorrenza, attualmente in discussione alla Camera, per imporre alle grandi piattaforme online di versare un obolo alle imprese di telecomunicazione
Una tassa che non è (formalmente) una tassa causata da una regolamentazione che non è (formalmente) una regolamentazione: si potrebbe sintetizzare così la spirale in cui si sta avvitando il sistema delle telecomunicazioni italiano. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha dato la sua benedizione a una modifica del disegno di legge annuale per la concorrenza, attualmente in discussione alla Camera, per imporre alle grandi piattaforme online di versare un obolo alle imprese di telecomunicazione, in modo da contribuire al finanziamento della banda larga.
L’argomento è più o meno questo: da un lato, lo sviluppo delle piattaforme determina una crescente richiesta di contenuti, che mette sotto stress le reti e richiede investimenti per potenziarne la capacità. Dall’altro, la fortissima concorrenza che c’è tra gli operatori di telecomunicazioni impedisce di alzare i prezzi, che infatti sono tra i più bassi in Europa, rendendo pressoché impossibile finanziare lo sviluppo delle infrastrutture. Come uscirne? Poiché sono le piattaforme a generare traffico e ad appropriarsi di gran parte della rendita – prosegue il ragionamento – deve intervenire lo stato e costringere i paffuti ott (over the top, i venditori di contenuti) a mettere mano al portafoglio e trasferire una “fair share” dei loro ricavi, una giusta quota, alle telco. La quantificazione del trasferimento dovrebbe essere stabilita attraverso una negoziazione bilaterale tra le parti, sotto la vigilanza del Garante delle comunicazioni, sulla scorta di quanto già messo in campo per la compensazione degli editori. Con la differenza che, in quel caso, c’è in ballo un complesso equilibrio relativo alla tutela della proprietà intellettuale e non, quindi, un mero trasferimento di risorse da una tasca a quell’altra. L’idea, insomma, è di rendere obbligatorio e intermediato dallo stato un meccanismo di finanziamento delle reti da parte dei loro principali utilizzatori che la regolamentazione europea (la cosiddetta net neutrality) vieta se effettuato sulla base di accordi di mercato.
L’operazione ricalca un tentativo abortito l’anno scorso a livello europeo (quando lo stesso Urso predicava cautela e chiedeva uno “studio di settore” al consiglio tlc di Leon in Spagna) e trova conforto nel rapporto Draghi, dove si vede l’influenza dell’ex ministro Vittorio Colao. L’intero meccanismo poggia però su fondamenta assai fragili. Anzitutto dal punto di vista economico: se le piattaforme si appropriano di una fetta maggiore del valore aggiunto è essenzialmente perché sono esse a produrne la gran parte. La rete non ha una utilità per il consumatore, se non per consentire la fruizione dei contenuti. E poiché entrambi i versanti del mercato sono competitivi – quello dei contenuti dove tra l’altro la regolamentazione Ue è intervenuta in modo assai violento per reprimere le Big Tech, e quello dei servizi di telecomunicazioni – bisogna ritenere che i prezzi espressi dal mercato riflettono le effettive condizioni di domanda, offerta e costi marginali. Non è un caso se il rapporto Draghi, nel riconoscere questa situazione, si lamenta dell’eccessiva concorrenza e invoca un ripensamento dei criteri con cui vengono valutate le fusioni tra le telco. L’auspicio dell’ex premier è di arrivare a un consolidamento del mercato e, presumibilmente, la possibilità di esercitare un maggiore potere di mercato ed estrarre prezzi più alti. Altrimenti, non si capirebbe la denuncia di un numero “troppo alto” di operatori.
Ma c’è di più: sebbene il meccanismo venga raccontato come puramente redistributivo, esso non può non avere anche effetti allocativi. Se il mercato è concorrenziale – e lo è – allora le risorse spostate dagli ott alle telco non avranno effetti rilevanti sui prezzi finali: finiranno per produrre, a parità di altri elementi, una riduzione dei prezzi delle connessioni e un aumento dei prezzi dei contenuti, a detrimento del benessere dei consumatori. C’è, in tutto ciò, un paradosso tutto italiano. Diversamente da tutti gli altri stati membri dell’Ue, dove diversi operatori competono tra di loro anche nello sviluppo di infrastrutture proprietarie, l’Italia si è imbarcata in un pericoloso progetto di “rete unica”, in cui la gestione della banda larga a tendere verrà assegnata a un quasi-monopolista controllato dallo stato. Quindi, il governo sembrerebbe pronto a imporre un trasferimento forzoso di risorse dalle piattaforme online (e quindi dai loro utenti) a un monopolista pubblico. Provate adesso (senza ridere) a dire che non è una tassa.