Due anni di Melonomics
Contro il falso mito delle manovre prudenti nemiche del consenso
Fine del Superbonus e taglio del Rdc, decontribuzione e riforma dell'Irpef: meno trasferimenti a chi non lavora e meno tasse ai lavoratori con redditi medio-bassi. Prudenza e redistribuzione. La politica economica di Meloni e Giorgetti
La terza legge di Bilancio di Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti trasmette un’immagine chiara della strategia economica del governo. Soprattutto perché questa manovra rende strutturali misure che erano temporanee, come la decontribuzione, ma anche perché con il nuovo Patto di stabilità viene indicato un percorso di finanza pubblica difficile da modificare fino a fine legislatura. La linea è lontana dalle promesse elettorali e ancor più dalla retorica populista utilizzata dai partiti di centrodestra in passato. Per quanto possa apparire strano, la Melonomics si compone di alcuni ingredienti persistenti, che inizialmente nelle precedenti manovre si vedevano poco ma che adesso danno continuità all’azione del governo: la prudenza sui saldi di bilancio e la riduzione delle imposte per i redditi medio-bassi.
I conti pubblici, beninteso, stanno attraversando una fase drammatica. L’Italia ha chiuso il 2023 con un deficit del 7,2%, esattamente il doppio della media dell’Eurozona (3,6%), cinque volte e mezza più della Grecia (1,3%). Dal 2020 al 2023, l’Italia ha registrato un deficit medio dell’8,5%: il più alto d’Europa. Le previsioni del governo puntano a una stabilizzazione del rapporto debito/pil attorno agli attuali livelli (circa 136-137%), con la prospettiva inevitabile nel 2028 di superare la Grecia come paese più indebitato d’Europa. Ciò deriva in gran parte da scelte pregresse: in particolare, il Superbonus e le altre agevolazioni edilizie, il cui costo (220 miliardi) ha superato di 150 miliardi le stime della Ragioneria dello Stato. I bonus edilizi impongono un dazio superiore al costo di un’intera legge Finanziaria: oltre due punti di pil annui (nel 2025 attorno ai 38 miliardi).
Secondo il Dpb, il deficit scenderà al 3,8% quest’anno, al 3,3% il prossimo e sotto al 3% nel 2026, con un anno di anticipo rispetto alle previsioni dell’ultimo Def. Si tratta di disavanzi ancora elevati, soprattutto in confronto ad altri paesi (fatta eccezione per la Francia), ma le pressioni politiche vanno in direzione opposta: i partiti di maggioranza premono per allargare i cordoni della borsa e l’opposizione accusa il governo di fare troppa “austerity”.
Dentro questi binari, la direzione è abbastanza chiara: il governo ha ridotto i trasferimenti per chi non lavora (ad esempio tagliando il Reddito di cittadinanza e la spesa pensionistica) e focalizzato le risorse sui redditi da lavoro medio-bassi. Sulla previdenza, a dispetto delle storiche battaglie di Matteo Salvini, Giorgetti è andato verso la piena attuazione della riforma Fornero: ha messo un po’ di soldi sulle pensioni minime e su anticipi ridotti rispetto al passato (Opzione donna, Ape, Quota 103 contributiva), ma ha contemporaneamente tagliato l’indicizzazione per gli assegni più elevati. Complessivamente, ha ridotto la spesa pensionistica per la prima volta dal governo Monti.
In tal modo, l’esecutivo ha potuto sostenere i redditi più colpiti dall’inflazione: la riforma dell’Irpef, che unisce l’accorpamento delle due aliquote più basse e gli effetti della decontribuzione (17,7 miliardi in tutto), è pensata per aumentare il reddito disponibile dei lavoratori con redditi inferiori ai 35 mila euro (40 mila dal 2025). Certo, ci sono anche altri bocconcini per gli elettorati di riferimento, come la cosiddetta flat tax per gli autonomi (la cui soglia è stata alzata a 85 mila euro nel 2024) e il concordato preventivo (che però non sembra riscuotere successo). Ad essere finora penalizzati dalla Melonomics sono i redditi Irpef medio-alti (dai 35 mila euro in su), che hanno subìto gli effetti del fiscal drag e il taglio, anche con questa manovra, delle detrazioni.
Infine, il governo ha fatto – senza troppa enfasi e forse principalmente per far cassa – una serie di interventi sulla fiscalità ambientale. Prima ha scelto di non rinnovare gli sgravi introdotti durante la crisi energetica (10 miliardi di sole accise). E ora si impegna a tagliare i sussidi ambientalmente dannosi: riduzione dei benefici sull’uso promiscuo delle auto aziendali, fine dell’Iva agevolata per lo smaltimento in discarica senza recupero di energia e, in prospettiva, convergenza delle accise su benzina e gasolio. Si tratta di provvedimenti razionali e coerenti: quel poco spazio fiscale di cui disponeva, il governo l’ha utilizzato per alleviare l’onere del fisco sui redditi bassi senza compromettere la sostenibilità dei conti.
Tuttavia, l’aggiustamento fiscale, dopo la stagione del doping da bonus, rischia nel breve termine di rallentare la crescita economica, in una fase già incerta e con la fine del Pnrr in vista nel 2026. Insomma, nel mix di politica del centrodestra mancano gli interventi pro crescita. E poiché non possono arrivare dalla spesa pubblica, andrebbero cercati sul lato dell’offerta. Ma nel campo della politica industriale il governo è del tutto carente. Anzi: invece di stimolare la concorrenza e aprire i mercati, si sta muovendo nella direzione di blindare gli operatori dominanti (per esempio Poste), impedire la contendibilità degli assetti proprietari delle aziende attraverso un uso esteso del golden power, ostacolare l’innovazione come nel caso del divieto sulla carne coltivata, sommergere gli operatori di burocrazia propagandistica e onerosa (dal carrello tricolore al prezzo medio dei carburanti voluti dal ministro Urso).
In breve, il governo Meloni persegue una cauta politica di bilancio che, stranamente rispetto al passato, non ha prodotto un calo nei consensi (anzi, sono aumentati rispetto al 2022), ma gli manca una visione più ambiziosa di politica economica. Mettere la testa su questo tema e trovare una declinazione concreta della promessa di “non ostacolare chi ha voglia di fare” (Meloni dixit) dovrebbe essere la priorità di Palazzo Chigi a partire dal prossimo primo gennaio.