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L'alleanza tra famiglia e impresa, creatività e pragmatismo al servizio del paese

Sergio Belardinelli

L'80 per cento della ricchezza italiana è generato da imprese familiari: non solo creano ricchezza, ma promuovono fiducia, responsabilità e crescita sociale. Un'alleanza tra valori umani e mercato globale

Gran parte della ricchezza del nostro paese, circa l’ottanta per cento, è generata da imprese familiari che, evidentemente, nonostante la difficile congiuntura che stiamo attraversando, non hanno problemi a muoversi in un mercato sempre più globale. Chi vive in provincia tocca con mano quotidianamente sia la loro vitalità economica e imprenditoriale, sia soprattutto il loro grande valore culturale, ossia l’alleanza tra famiglia e impresa che esse simboleggiano. Questa alleanza ci dice, ad esempio, l’importanza di uno sviluppo che deve essere certo anche economico, ma che non può essere soltanto economico e che, anzi, può essere economico solo a condizione che nella società si generino quelle risorse di familiarità, solidarietà, diciamo pure, di umanità, senza le quali, alla lunga, non si dà sviluppo di alcun genere.

 
A dispetto di quanto pensano molti funzionalisti, l’impresa familiare rappresenta non soltanto la migliore dimostrazione del fatto che famiglia e impresa non sono due mondi chiusi l’uno rispetto all’altro, “autoreferenziali”, ma anche uno stimolo a riflettere su quanto sia importante per l’impresa avere a disposizione un capitale sociale che proprio la famiglia è in grado di produrre forse più di qualsiasi altra istituzione sociale. Mi spiego. Un’impresa, per svilupparsi, ha bisogno di gente desiderosa di intraprendere, disposta al rischio per accrescere non soltanto i propri benefici economici, ma anche la propria reputazione sociale, la quale, a sua volta, si basa certo sulla crescita dei profitti, ma anche sulla loro destinazione a vantaggio dell’impresa stessa, non soltanto del proprietario.

 

Un’impresa per svilupparsi ha bisogno inoltre di lavoratori che facciano con dedizione e passione il loro lavoro, che sentano di crescere anche umanamente nel lavoro che svolgono; ha bisogno infine di un tessuto sociale e istituzionale che ne promuova le virtù fondamentali, a cominciare dalla competenza, la disponibilità al rischio, la capacità di stare sui mercati e di produrre ricchezza, ma anche l’attenzione ai bisogni del territorio, la sussidiarietà, la solidarietà: una solidarietà che deve sempre fare i conti con le risorse di cui si dispone, non quella sprecona alla quale ci siamo purtroppo assuefatti in questi ultimi decenni e i cui costi finiranno inevitabilmente per gravare sulle generazioni future. 


Ebbene la famiglia si configura come uno dei luoghi privilegiati per la generazione di queste risorse immateriali, relazionali, ma indispensabili anche per la produzione dei beni economici, materiali dell’impresa. Guai a una famiglia al cui interno si genera una cultura familistica chiusa, sterile e indifferente a questi beni relazionali e alle responsabilità nei confronti del mondo esterno. Ma guai anche a un’impresa che si limita semplicemente a sfruttare i beni relazionali prodotti dalla famiglia, senza produrli essa stessa. In questo caso infatti l’impresa finirebbe col perdere di vista quella che, prima ancora del profitto e di tutto il resto, è la sua caratteristica più banale, ma anche più caratterizzante: l’essere cioè qualcosa di umano, qualcosa che ha a che fare con gli uomini e che, proprio per questo, al di là dei codici specifici che possono venire volta a volta mobilitati, è chiamata ad essere appunto “umana”


Molto sinteticamente, intendo dire che la qualità di un’impresa è data certamente dalla competenza dei suoi membri, dalla creatività, dall’efficienza, dalla sua capacità di stare sul mercato e di produrre ricchezza. Ma la sua qualità “umana” e “civile” emerge, allorché, insieme a tutte queste cose, essa, seppure indirettamente, è in grado di promuovere in tutte le sue diverse fasi produttive, a tutti i suoi diversi livelli organizzativi, determinate risorse, quali il rispetto per gli altri, la reciproca fiducia, la responsabilità, il senso del proprio dovere, il senso del sacrificio, in una parola: quell’“umano” che ovviamente dovrà essere promosso da tutta la società, ma rispetto al quale anche l’impresa è chiamata a fare la sua parte. Non è pensabile ad esempio che una determinata azienda riconosca l’importanza umana e sociale della fiducia, una virtù pubblicamente rilevantissima, se poi tale virtù non viene praticata e promossa nella vita dell’azienda stessa, non diventa cioè una parte integrante della “cultura” dell’azienda. Un tale atteggiamento parassitario, infatti, potrebbe rivelarsi redditizio nel breve periodo, ma alla lunga sarebbe di sicuro controproducente sia per l’impresa sia per la società. Come scrissero più di sessant’anni fa Gabriel Almond e Sidney Verba, la cultura civica di un paese “è trasmessa da un processo complesso che implica un tirocinio in molte istituzioni sociali, famiglia, gruppi paritari, scuola, posto di lavoro, e nello stesso sistema politico”. Ognuno deve dunque fare la sua parte.

   
Come ho detto all’inizio, le imprese familiari di cui l’Italia è ricca e grazie alle quali si arricchisce simboleggiano molto bene il senso di questa alleanza tra famiglia e impresa di cui stiamo parlando. Eppure non sempre essa sembra giocare il ruolo che meriterebbe nelle grandi dispute che si fanno, poniamo, sul destino del lavoro nell’epoca delle intelligenze artificiali o sui bassi tassi di produttività di cui soffre il sistema Italia. Di qui il rischio di affrontare certi temi in modo ideologico, astratto, pensando magari che le cosiddette macchine intelligenti rappresentano soltanto un pericolo per l’occupazione e che un aumento della produttività significherebbe semplicemente un ulteriore sfruttamento di chi lavora. L’impresa familiare, l’alleanza che essa evoca tra famiglia e lavoro potrebbero aiutarci invece a guardare i problemi con maggiore creatività e pragmatismo, senza perdere mai di vista la qualità umana di ciò che facciamo. 

 

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