I fondi europei
Gauer (Ue) fa la voce grossa sulle riforme da fare e i lavori, in ritardo, del settore ferroviario
Il capo della Recovery & Resilience Task Force europea ha un’arma potentissima per imporre le sue riforme al governo italiano: con 22 miliardi del Pnrr, la Rete ferroviaria italiana è di gran lunga il principale beneficiario dei fondi comunitari europei e avrà quindi tutti i riflettori di Bruxelles puntati addosso
Gare per l’affidamento dei servizi di treni regionali e intercity, abolizione del doppio macchinista anche per ridurre quella che in ferrovia si chiama “ridondanza” di sicurezza e poi la richiesta forse più indigesta per il ministero delle Infrastrutture: una valutazione preventiva sull’efficienza degli investimenti programmati affidata all’Autorità di regolazione dei trasporti guidata da Nicola Zaccheo. Sono riforme radicali che potrebbero stravolgere il settore ferroviario quelle che la capa della Recovery & Resilience Task Force europea, la francese Céline Gauer, ha messo la scorsa settimana sul tavolo del confronto con il ministero delle Infrastrutture, in occasione della visita della commissione a Roma per verificare, ministero per ministero e poi a Palazzo Chigi, lo stato di attuazione del Pnrr italiano e il punto sui prossimi target di fine anno.
Atteggiamento molto duro, quello della Gauer: molti che l’hanno incontrata in quei giorni hanno detto “mai così duro”, e chissà se c’entra l’arrivo a Bruxelles, sopra di lei, di Raffaele Fitto. Fatto sta che Gauer, alle rimostranze dei tecnici del ministero delle Infrastrutture sul tenore e sulla durezza di queste riforme, ha alzato addirittura il tiro e ha fatto capire che non mollerà. Certo, l’incontro è stato a livello tecnico e ora la patata bollente, prima o poi, passerà nelle mani del ministro Salvini. C’è da scommettere che lì la partita cambierà, almeno nei toni. Gauer ha però un’arma potentissima per imporre le sue riforme al governo italiano: i ritardi nell’attuazione del Pnrr in generale e, in particolare, i ritardi davvero molto importanti di Rfi (Fs). Non dimentichiamo che con 22 miliardi che il Pnrr le affida, la Rete ferroviaria italiana è di gran lunga il principale beneficiario dei fondi comunitari europei e avrà quindi tutti i riflettori di Bruxelles (ma anche dei paesi “frugali”) puntati addosso quando si tratterà di fare un bilancio per capire se il Pnrr ha funzionato o no.
A oggi il quadro non è proprio incoraggiante. Se si fa eccezione per la linea ad Alta velocità Brescia-Verona-Padova, che dovrebbe essere conclusa regolarmente entro il 2026 senza troppe sofferenze, per tutti gli altri cantieri la preoccupazione è alta. Il terzo valico fra Genova e Milano, bloccato a lungo per la talpa ferma nel tunnel, dopo aver compresso l’investimento da due a una galleria (o “canna” come dicono quelli del ramo), ora è sospesa sine die in attesa di capire che fare dell’importante giacimento di gas trovato lungo i cantieri. Sulla Palermo-Catania le talpe sono ferme per mancanza di acqua causata dalla crisi idrica. La Napoli-Bari ha dovuto rallentare (e forse cambiare in corsa qualche lotto) pure per la presenza di alcune frane.
Il primo lotto della Salerno-Reggio Calabria per ora si muove nei tempi, ma è un’opera così complessa che ancora deve mettersi davvero in moto. Meglio, ma perché possono godere di maggiore flessibilità, vanno altri programmi diffusi sul territorio, dai sistemi tecnologici di controllo della marcia del treno (Ertms) all’eliminazione dei passaggi a livello alla riqualificazione delle stazioni del Mezzogiorno. In quei programmi, proprio perché programmi e non opere puntuali, se un lavoro non marcia si può sostituire con una certa rapidità, senza fare troppo clamore.
A fronte di questo quadro, l’Italia ha tutto l’interesse ad accontentare quante più possibili richieste di Bruxelles. Verrà un momento in cui bisognerà probabilmente mettersi al tavolo a valutare se sia il caso di cambiare ancora qualcosa nel Pnrr italiano, con una nuova revisione del Piano, come quella dello scorso 8 dicembre, oppure se si riesca a risolvere con una flessibilità concordata che consenta di approvare stralci funzionali delle opere e spostare risorse sulle “riserve” che stanno a bordo campo. Prima di quel momento, gioverebbe di sicuro all’Italia un clima politico migliore, che consenta anche di negoziare sulle richieste di riforme della Commissione, distinguendo fra cosa accettare e cosa contrastare opponendosi più decisamente. C’è da aspettarsi, perciò, che una parte di quelle richieste finisca in un decreto-legge destinato davvero a dare uno scossone al mercato ferroviario italiano. Altro che privatizzazione annunciata un po’ di corsa. Piuttosto un’altra dose di liberalizzazione soprattutto nei settori in cui ancora non si è vista.
Va anche detto che alcune delle cose che Bruxelles chiede sono già previste o almeno messe in conto. Sull’apertura del mercato degli intercity, per esempio, è già previsto che, alla scadenza del contratto fra Mit e Trenitalia, in accordo con i regolamenti europei, sarà pubblicato un bando di gara per l’affidamento del servizio. Anche sulle merci l’Italia può già vantare di aver aperto il mercato in chiave concorrenziale, mentre sul trasporto regionale, dopo i fallimenti degli anni 90, quando le gare si fecero ma vinse sempre l’incumbent, ora si è scelta la strada di un monitoraggio dei contratti di servizi regionali in scadenza e di una penalità del taglio del 15 per cento rispetto agli stanziamenti per le regioni che eludono la strada della gara.
Resta il tema delle procedure per gli investimenti su cui da tempo si ragiona fra Mef e Mit in termini di riforma dei meccanismi di programmazione e finanziamento dei lavori. Il contratto di programma è uno strumento che non garantisce né trasparenza né l’ottimizzazione dei processi di pianificazione e supervisione. Tutto è lento e farraginoso. La disponibilità italiana a cambiare, su questo fronte, non mancherà. Così come si potrebbe mettere in conto una cooperazione con l’Autorità di regolazione sull’adeguatezza dei livelli di servizio che il gestore dell’infrastruttura Rfi riesce a garantire. La disponibilità al compromesso sul punto finisce però qui. Nessun ministro delle Infrastrutture si lascerebbe mai sfilare, neanche parzialmente, la competenza più importante che ha: la programmazione degli investimenti ferroviari.