nella legge di bilancio
Giorgetti taglia il fondo Automotive e complica i piani senza strategia di Urso
Il governo riduce dell’80 per cento i fondi per la transizione e gli investimenti, destinando 4,6 miliardi alla Difesa. I tagli allarmano le imprese, ma sono l’ultimo capitolo di una politica ricca di annunci e con pochi risultati per la produzione nazionale di automobili
Per le migliaia di imprese italiane sull’orlo di una crisi, non solo di nervi, la notizia è stata deflagrante: la prossima legge di Bilancio taglia il fondo Automotive che serve a sostenere la transizione e gli investimenti dell’80 per cento. Le mani di forbice sono quelle del ministro delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, lo stesso ministro che ha istituito il fondo pochi mesi prima che cadesse il governo Draghi. L’imbarazzo però è tutto di Adolfo Urso, il ministro che in questi due anni di governo Meloni è stato interlocutore diretto dell’industria del settore, costruendo un rapporto tanto conflittuale con Stellantis, quanto di grande intesa con le imprese della filiera italiana.
A leggere la relazione tecnica della manovra depositata lunedì in Parlamento, diversi rappresentanti delle associazioni di categoria – dai sindacati ai concessionari, dai produttori esteri a quelli italiani – hanno fatto un balzo sulle loro sedie. “Siamo rimasti sorpresi e anche un po’ delusi”, dice Gianmarco Giorda, il direttore generale di Anfia, l’Associazione nazionale della filiera automobilistica che da un anno porta avanti con il ministero un piano di lavoro condiviso per rilanciare la produzione italiana. Il taglio è di 4,6 miliardi, spostati sull’industria della Difesa, e questo significa che a meno di rimediare altre risorse – la questione ora si sposta in Parlamento – restano solo 1,2 miliardi per sostenere il settore, già fiaccato dalle norme ambientali europee, dalla concorrenza cinese e da una domanda incerta. Fino ad ora sono stati finanziati negli ultimi anni gli incentivi all’acquisto, quelli chiesti a gran voce soprattutto da Stellantis. Ora, fa sapere il ministro Urso, “tutte le risorse andranno sul fronte degli investimenti produttivi con particolare attenzione alla componentistica che è la vera forza del made in Italy”. Una strizzata d’occhio proprio ad Anfia, che rappresenta la componentistica italiana.
Il problema è che nonostante il grande attivismo del ministro, da un anno a questa parte la produzione domestica delle autovetture è calata del 37 per cento mentre quella di parti e accessori del 18,7 per cento. Senza un piano straordinario di politica industriale con un orizzonte di lungo termine sarà difficile invertire il trend, avvertono le imprese, ma di questo piano non c’è traccia nelle attività di Urso. E i tagli appena inseriti in manovra non fanno che peggiorare le prospettive.
Non è chiaro per esempio come il ministro intenda dare seguito all’annuncio di aumentare la produzione nazionale fino a un milione di veicoli, una cifra che includerebbe anche quelli commerciali e non solo le automobili e che dopo alcune precisazioni ha come orizzonte il 2030. La scorsa primavera la richiesta era stata rivolta all’unico produttore italiano, Stellantis, con cui Urso ha ingaggiato un braccio di ferro dall’esito poco rassicurante, visto l’uso a intermittenza della cassa integrazione e gli stop and go della produzione, i più recenti negli stabilimenti di Pomigliano d’Arco, Termoli e Pratola Serra. Negli stessi mesi, in linea con la polemica portata avanti dal ministro, sono state sequestrate al porto di Livorno più di un centinaio di Topolino perché prodotte in Marocco ma con un adesivo tricolore appiccicato. Anche l’Alfa Romeo Junior ha cambiato nome, dacché doveva essere chiamata Milano, perché prodotta in Polonia. Ma questo, come è ovvio, non ha contribuito all’aumento della produzione nazionale. Il ministro ha poi annunciato di avere avviato un’interlocuzione con alcuni produttori cinesi interessati a investire in Italia, così da ridimensionare il ruolo di Stellantis e aprire nuovi stabilimenti. Dopo un viaggio in Cina e diversi rumors, il piano sembra però essere congelato. Il motivo è la politica ambigua del governo italiano verso Pechino, visto che da una parte cerca di attrarre investimenti e dall’altra vota a favore dei dazi alle auto elettriche cinesi approvati dall’Unione europea. C’è poi la guerra che Urso ha ingaggiato a Bruxelles per chiedere di anticipare la revisione del bando alle auto diesel e benzina. Per il momento la proposta è stata respinta dalla vicepresidente designata della Commissione europea, Teresa Ribera, ma il ministro ha annunciato di volerci riprovare con un non paper presentato insieme alla Repubblica ceca. Un obiettivo ambizioso e annunciato con grande enfasi ma che non piace, a proposito di strategia nazionale, proprio all’unico produttore italiano.