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l'analisi

Pnrr e mercato del lavoro: tutti i problemi della riforma Gol

Marco Leonardi

Era stata pensata nel 2020 in un momento di contrazione. Ora andrebbe ripensata. Servirebbe puntare sulla qualità dei posti lavoro invece che sulla semplice quantità. indirizzare i disoccupati verso una formazione specifica che affronti il problema del “mismatch” tra le competenze dei lavoratori e le competenze richieste dalle imprese

Il progetto del Pnrr per il lavoro si chiama Gol (Garanzia di Occupabilità dei lavoratori) ed è stato pensato nel 2020: il mercato del lavoro era in contrazione e l’Italia aveva sperimentato in pandemia (unicum mondiale) il blocco dei licenziamenti. Per quella ragione, e non senza polemiche, i soldi del Pnrr furono messi su un a riforma strutturale con obiettivi semplici, che puntavano sulla quantità di disoccupati presi in carico dai centri dell’impiego.

   

Oggi che invece fortunatamente il mercato del lavoro va bene, servirebbe esattamente il contrario: puntare sulla qualità dei posti lavoro invece che sulla semplice quantità. servirebbe indirizzare i disoccupati verso una formazione specifica che affronti il problema del “mismatch” tra le competenze dei lavoratori e le  competenze richieste dalle imprese. L’occasione giusta per cambiare era la revisione del Pnrr, ma il ministro Fitto – ha messo invece un miliardo in più su Gol senza cambiare il progetto di una virgola, un’occasione persa.

 

Non è una questione per  esperti del mercato del lavoro perché, di tutte le riforme Pnrr, l’unica che ha 5,5 miliardi da spendere è Gol. Tant’è vero che il Piano strutturale di Bilancio gli attribuisce nel prossimo anno ben 0,9 per cento  di crescita di pil mentre  le altre riforme –  concorrenza,  appalti , giustizia – contano lo 0,1 per cento ciascuna.

 

Gol prevede la presa in carico di 3 milioni disoccupati di cui 800 mila da mettere in formazione. La prima parte dei target è stata superata, ma solo apparentemente, perché prendere in carico amministrativamente la gente non è  difficile. Il target della formazione sta affrontando ostacoli formidabili: per essere annoverato  nel target Ue, un disoccupato deve avere una certificazione delle competenze (avere frequentato un corso di formazione), oppure deve avere effettivamente trovato un’occupazione, o almeno deve aver ricevuto un servizio di orientamento al lavoro. Ma sarebbe un peccato se ci si accontentasse di un accompagnamento al lavoro puramente formale e inefficace, pur di raggiungere il target.

 

Il dubbio non è peregrino perché sul sottoinsieme dei più bisognosi, cioè quelli che venivano dal Reddito di cittadinanza, il governo ha studiato un sistema di formazione che sembra costruito apposta per non funzionare. Meno di 90mila persone, tra mezzo milione di persone  potenzialmente occupabili, hanno fatto domanda per il sistema di formazione da €300 al mese per pochi mesi, e solo 48mila sono gli effettivi beneficiari.

 

Ma mentre il fallimento della parte che riguarda gli ex Rdc  si può spiegare con un motivo ideologico, il fallimento della formazione dei disoccupati “ordinari” è dovuta al fatto che il governo non se n’è mai davvero occupato. I problemi della formazione dei disoccupati a cui mettere mano al più presto sono due: uno di domanda e uno di offerta. Il problema di domanda è che molte persone, anche se formalmente disponibili al lavoro e in cerca di occupazione, in realtà si rifiutano di fare qualunque tipo di formazione. Le ragioni possono essere  diverse: perché non sono davvero interessate a trovare un posto di lavoro o perché non hanno le informazioni corrette riguardo ai benefici della formazione. In entrambi i casi si può agire per ridurre il problema. 

 

Se una persona sta prendendo il sussidio di disoccupazione, tendenzialmente non vorrà fare la formazione perché la frequenza ai corsi condiziona il sussidio (con due assenze in un mese lo si perde) e, per converso, per evidenziare i vantaggi dello sviluppo di competenze i centri dell’impiego dovrebbero fare un lavoro di informazione e di profilazione con maggiore attenzione, dedicando più tempo, quando invece ora devono fare numeri e non qualità. Ma è anche un problema di offerta: non si può destinare denaro pubblico per formare una persona che è già in azienda (su cui quindi l’impresa ha interesse a investire) perché sarebbe  “aiuto di stato”, ma si la può formare per poi assumerla. Il problema è che spesso i numeri delle richieste delle aziende sono troppo piccoli per formare le classi e quindi, per raggiungere i numeri minimi, chi offre formazione organizza percorsi  generici. 

 

Il momento è  propizio per fare qualcosa di utile con 5,5 miliardi. Se proprio non lo si vuole fare per risolvere un problema strutturale dell’Italia, lo si può fare almeno per la finanza pubblica: senza lo 0,9 per cento di pil attribuito alla riforma Gol i conti non tornano.

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