l'analisi
Più contrattazione uguale salari migliori. Cosa ci dicono i dati Istat
I rinnovi dei contratti aumentano, ma sui salari serve ancora creatività: l'esempio del modello milanese che nasce da una proposta del think tank Tortuga. Numeri e prospettive
Un osservatore neutrale alla fine potrebbe dire che il suo, la contrattazione, nell’ultimo anno l’ha fatto. E potrebbe sostenerlo senza nascondere nessuno dei problemi che rimangono aperti. Dalla rilevazione Istat di ieri siamo infatti venuti a sapere che le retribuzioni contrattuali sono cresciute in un anno più del 4 per cento. Per la precisione il tendenziale dà 4,6 per cento nell’industria, 4,1 nei servizi e un misero 1,6 per i lavoratori della pubblica amministrazione. Mentre nel settore del credito e delle assicurazioni l’incremento è stato addirittura a due cifre: 11 per cento. La contrattazione, nel volgere dell’anno, ha dunque battuto la crescita dei prezzi al consumo per più di due punti. E a suo modo è una buona notizia, sottolineata dall’Istat con il commento che “sta proseguendo l’auspicato recupero del potere d’acquisto”.
Potremmo aggiungere ancora che questi dati sono una piccola dimostrazione che la contrattazione non è morta, continua seppur a singhiozzo a svolgere il ruolo che le viene assegnato in una moderna economia di mercato. Naturalmente l’obiezione (condivisibile) è che stiamo parlando di un recupero del potere d’acquisto tardivo e quantitativamente non proporzionato alla discesa degli anni dell’inflazione.
Ma questa benedetta contrattazione è universale o invece anche al massimo del suo spolvero fa figli e figliastri? La risposta che ci fornisce l’Istat dice che i 46 contratti nazionali in vigore “bagnano” solo il 47,5 per cento dei lavoratori dipendenti ovvero 6,2 milioni. E ovviamente, nelle condizioni date, un limite grave per l’estensione relativa dei benefici. Ad esempio, nel terzo trimestre del 2024 sono stati rinnovati otto contratti, dalle calzature alla ceramica passando per scuole private, alberghi e trasporti marittimi. I contratti in lista d’attesa – ovvero di rinnovo – sono però tutt’altro che pochi: ben 29 e riguardano una platea più larga di quella coperta da contratti in vigore (6,9 milioni contro i 6,2 di cui abbiamo già detto). Per i contratti scaduti il tempo medio di rinnovo è di 18,3 mesi (era di 32,2 nel settembre ’23) e comunque per la valutazione delle virtù della contrattazione non è un bel voto in pagella. E infatti l’Istat sottolinea come la quota dei lavoratori in attesa di rinnovo contrattuale abbia risuperato la quota psicologica del 50 per cento, a causa dell’attesa per le costruzioni e i metalmeccanici (partita complicatissima).
Se i dati di ieri ci aiutano a fotografare pregi e difetti della contrattazione non è mai troppo tardi riflettere su cosa ne vogliamo fare, sui compiti da assegnarle e sulle strategie combinatorie che potrebbero essere adottate senza umiliarla. Sappiamo bene che i limiti della contrattazione stessa – la mancata o tardiva copertura di alcuni settori – riflettono la debolezza delle parti datoriali ma anche l’irreversibile declino della rappresentanza sindacale. Il negoziato è vivo e vegeto nella parte più competitiva del sistema economico mentre langue nel resto, con il manifestarsi di uno sgretolamento delle relazioni industriali classiche segnalato dalla robusta presenza dei contratti-pirata e dal predominio dei Cobas in alcuni settori come la logistica o il trasporto pubblico.
Sono in tanti ormai a sostenere che il recupero del potere d’acquisto delle paghe è quasi un obiettivo di sistema vuoi per introdurre elementi di equità ma anche per supportare una domanda interna ai minimi storici almeno in un pugno di settori (auto, abbigliamento, elettrodomestici). Ma possiamo affidare questo compito in toto a una contrattazione che non riesce a essere né universale (ovviamente) e nemmeno maggioritaria? E’ una domanda che i puristi, largamente presenti anche nel miglior sindacalismo e tra i più rigorosi giuslavoristi, dovrebbero cominciare a porsi. E subito dopo a trarne le conseguenze.
E’ così impossibile riprendere una discussione sulla sperimentazione del salario minimo per legge a partire dal settore dei servizi low cost? Se la si depura dal politicismo e dal gioco delle parti è una discussione che persino il governo potrebbe trovare utile. Quale bandiera ideologico-culturale da far garrire è preferibile a un sostegno indiretto a quei consumi da cui dipende la ripartenza del manifatturiero? E anche il Cnel che de facto è stato l’advisor dell’esecutivo nella bocciatura del salario minimo può negare la persistenza minoritaria della contrattazione?
In una impostazione più duttile degli strumenti di innovazione sociale può trovar campo persino la proposta di un “salario milanese” che circola ampiamente nella città di Ambrogio e che ha trovato largo spazio sulle pagine locali del Corriere della Sera.
Il salario milanese è una proposta avanzata da un piccolo think tank, Tortuga, e da un gruppo di economisti del lavoro. Prende atto che a Milano il costo della vita è ampiamente superiore alle altre città e decurta ancor maggiormente quel potere d’acquisto a cui tutti teniamo. Un precedente c’è ed è londinese. Si fissa una soglia – per Milano è stata individuata in 10 euro – e il comune supportato dalla comunità accademica la “offre” al sistema delle imprese che su base volontaria può adeguare a quel livello la paga minima. A Londra, assicurano, che più di due terzi dei soggetti interessati ha aderito al progetto che in cambio restituisce alle imprese un bollino blu reputazionale. Vedremo se l’idea dei Tortuga avrà seguito, per novembre si attendono conciliaboli e qualche sviluppo concreto. Possiamo intanto dedurne che le vie dei salari sono tante, l’innovazione sociale può supportarle e alla cara “vecchia” contrattazione non si deve indicare la strada della soffitta. Anzi, meglio opera – come i dati Istat di ieri tutto sommato ci dicono – più la combinazione di strumenti salariali può funzionare.