Battuta d'arresto
Calano gli occupati e si ferma il pil: l'unica leva del governo è il Pnrr
La doppia brutta notizia dall’Istat: 63 mila occupati in meno a settembre e crescita zero nel III trimestre
E’ una battuta d’arresto, ma la riduzione degli occupati a settembre, per la prima volta dalla fine della pandemia, può essere il segnale di una pericolosa svolta congiunturale. Incrociando il dato con la crescita zero del prodotto interno lordo nel terzo trimestre si fa presto ad arrivare alla peggiore delle conclusioni. I posti di lavoro due mesi fa si sono ridotti di 63 mila unità, portando il tasso di occupazione al 62,1 per cento (a luglio aveva segnato il record del 62,3 per cento). Il tasso di disoccupazione resta invariato al 6,1 per cento, confermandosi ai livelli più bassi dal 2007, mentre il tasso di inattività sale al 33,7 per cento, tornando alla quota di febbraio 2023. Nonostante il calo mensile, su base annua si mantiene una crescita di 301 mila occupati. E’ presto quindi per stracciarsi le vesti.
Secondo Adapt, la fondazione creata nel 2000 da Marco Biagi (il giuslavorista ucciso nel 2002 dalle nuove Brigate rosse), il dato più significativo riguarda la diminuzione dell’occupazione maschile, che segna un calo di 52 mila unità, mentre quella femminile registra una contrazione più contenuta di 11 mila unità. Ma davvero preoccupante secondo Francesco Seghezzi, presidente di Adapt, è l’andamento degli inattivi aumentati di 63 mila. In questo modo nell’ultimo anno la loro crescita ha superato quella degli occupati: +337 mila contro 301 mila. E’ la conferma che la svolta del ciclo s’avvicina?
Calano anche i posti di lavoro a tempo indeterminato (meno 55 mila) che nel 2022 avevano superato il livello del 2019, cioè pre Covid. Alla fine del 2023 si sono registrati oltre 1,6 milioni di occupati dipendenti in più rispetto a 15 anni prima, e il 60 per cento aveva un contratto a tempo indeterminato, come sottolinea un’analisi del Centro studi della Confindustria. La fascia di età più critica è quella tra i 35 e i 49 anni, va peggio anche l’occupazione giovanile, mentre continuano a crescere i posti di lavoro tra i 25 e i 34 anni, presumibilmente dove si concentrano i nuovi lavori, a cominciare da quelli high tech. Sarebbe interessante una ricerca più dettagliata in tal senso.
Meno occupati e crescita ferma, l’equazione è quasi ovvia, e a tirare in giù è la domanda. Secondo l’Istat, nel terzo trimestre dell’anno il pil italiano, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è rimasto stazionario rispetto al trimestre precedente (nonostante tre giornate lavorative in più) ed è aumentato soltanto dello 0,4 per cento sul terzo trimestre del 2023. Al +0,4 per cento resta inchiodata anche la crescita acquisita per l’anno in corso, lontana dunque dall’obiettivo dell’un per cento.
La stessa Banca d’Italia indica che qualcosa sta cambiando. Il governatore Fabio Panetta, nel suo intervento per la Giornata mondiale del risparmio, dopo aver segnalato l’ottima performance economica dell’Italia nell’ultimo quinquennio, con un pil che è cresciuto dal 2019 del 5,5 per cento a fronte del 4,1 della Francia e dello 0,2 della Germania, ha segnalato che “l’economia globale attraversa una fase d’incertezza”, che “l’economia dell’area dell’euro rimane fiacca” e che “l’economia italiana ne sta risentendo”. Da un lato Panetta dice che serve un taglio più incisivo dei tassi da parte della Bce (“Le condizioni monetarie rimangono restrittive e richiedono ulteriori riduzioni”) e dall’altro, con una politica di bilancio che non può dare alcuna spinta data la necessità di ridurre il debito, il governo deve puntare sul Pnrr “realizzando gli investimenti e le riforme”.
L’Istat spiega che la stagnazione estiva è la sintesi di una crescita del settore terziario, di una lieve contrazione dell’agricoltura, silvicoltura e pesca e di una forte riduzione dell’industria. Dal lato degli impieghi si registra un apporto positivo della domanda interna al lordo delle scorte e un contributo negativo della domanda estera. Secondo l’ultima indagine del centro studi della Confindustria, nel suo insieme quest’anno sarà segnato da un calo anche della domanda interna che dovrebbe riprendersi tra il 2025 e il 2026. Non c’è più da vantare nessun record, né da fare paragoni da campionato europeo.
Secondo Eurostat in testa è la Spagna (+0,8 per cento), la Francia fa 0,4 per cento e la Germania mostra segni di ripresa (+0,2 per cento). Se la smettiamo con i messaggi sportivo-militareschi e se è vero che la stasi italiana finora è determinata più dalla domanda estera, non possiamo che rallegrarci perché i principali sbocchi per le nostre merci, quello tedesco e francese, si stiano riprendendo. Questo autunno è segnato dalla crisi di importanti settori della industria italiana, con un aumento massiccio della cassa integrazione e conseguente riduzione dei redditi percepiti. La caduta maggiore è nell’automotive (Stellantis ha fatto segnare nel terzo trimestre un calo delle consegne del 20 per cento e un crollo dei ricavi del 27 per cento), ma vanno male anche il tessile/abbigliamento e tutti i principali comparti a eccezione di alimentari, carta, energia. Anche questo peserà sui conti pubblici che, verosimilmente, andranno presto aggiustati.