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L'intervento

Le imprese spiegano perché il governo ha fatto un disastro sulla web tax

Filippo Miola

La nuova manovra allarga le maglie della tassa sui ricavi aziende digitali, scoraggiando le società con margini ridotti o ancora non redditizi come pmi e startup: realtà imprenditoriali innovative e fondamentali per digitalizzazione, su cui l'Italia rischia di non investire abbastanza

Al direttore - L’eliminazione delle soglie di fatturato nella web tax del 3 per cento, prevista dal disegno della Legge di Bilancio approvato dal governo lo scorso 15 ottobre e attualmente all’esame del Parlamento, è un grave errore che colpisce indiscriminatamente le aziende digitali, senza tenere conto delle loro dimensioni o della loro redditività. Cos’è questa “eliminazione delle soglie”?  Finora, la Digital service tax colpiva solo le aziende digitali con ricavi globali di almeno 750 milioni di euro e 5,5 milioni di euro generati in Italia. Parliamo dei cosiddetti “giganti del web”. Ora questo limite è stato cancellato: ogni azienda che fornisce determinati servizi digitali generando ricavi in Italia, è obbligata a pagare un’imposta del 3 per cento sui ricavi, scontando, di fatto, una doppia imposizione se l’impresa è soggetta anche alle imposte dirette in Italia (come ad esempio l’Ires e l’Irap, per quanto la web tax, a certe condizioni, possa essere dedotta da dette imposte).

 

                          

 

L’Agenzia delle entrate spiega che la norma sulla web tax colpisce i servizi digitali onerosi e quei soggetti passivi d’imposta che veicolano "pubblicità mirata su una interfaccia digitale". Quest’ultima viene definita come "qualsiasi software, compresi i siti web o parte di essi e le applicazioni, anche mobili, accessibili agli utenti". Ad esempio, le "piattaforme digitali che erogano servizi televisivi e programmi a pagamento", in quanto "possono ospitare messaggi pubblicitari" (circolare n. 3/2021). Vengono poi colpiti i social media, così come i servizi digitali che raccolgono i dati degli utenti, purché sia "a titolo oneroso”. Una scelta che lascia molto perplessi anche perché non si tratta di una tassa sul reddito conseguito, ma sui ricavi, una differenza cruciale che mette in crisi le imprese con margini ridotti o non ancora redditizie (potrebbe colpire anche le imprese in perdita ) e potrebbe fare la differenza tra restare sul mercato o chiudere. Molte di queste Pmi e startup, pur innovando, non hanno ancora raggiunto livelli di profitto e ora devono fronteggiare una tassa pensata originariamente per i colossi della tecnologia, non per loro. Dati Istat del 2023 mostrano che solo il 43 per cento degli italiani possiede competenze digitali di base e che solo il 19,1 per cento delle imprese italiane ha effettuato vendite online.

È chiaro che siamo in ritardo rispetto ai nostri concorrenti europei e internazionali. A fronte di questi numeri, il governo dovrebbe incentivare l’adozione di tecnologie digitali, non scoraggiarla con nuove tasse. In Italia, la digitalizzazione è già un settore sottodimensionato, per motivi strutturali del nostro tessuto industriale e anche per motivi culturali: anziché sostenerlo, lo si penalizza ulteriormente, mettendo in fuga gli investitori. Basta guardare ai dati sugli investimenti: siamo fanalino di coda in Europa con un investimento tecnologico per Pmi ben al di sotto della media Ue. Solo il 60,7 per cento delle Pmi ha adottato almeno quattro attività digitali di base, mentre la quota scende drasticamente per tecnologie più avanzate, come l’intelligenza artificiale o l’analisi dei dati, che si trovano solo tra le aziende già solide. Gli esponenti in Parlamento che hanno una anche minima conoscenza di come funzionino questi meccanismi devono intervenire per porre un freno a questa assurdità. Una tassa di tale portata disincentiva ogni tentativo di innovazione, allontana gli investimenti, non offre alcun vantaggio economico reale al bilancio dello Stato e aggrava la posizione già fragile dell’Italia nel panorama tecnologico globale. Ci aspettiamo non solo un segnale, ma un’azione concreta per fermare questa follia fiscale prima che sia troppo tardi per le aziende italiane, rappresentando inoltre un precedente preoccupante per tutte le filiere che fanno innovazione. 


Filippo Miola. vicepresidente Confindustria Vicenza con delega alla digitalizzazione