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Industria

La solitudine degli imprenditori che il governo ancora non vede

Dario Di Vico

Dalle discussioni sui dazi di Trump alla norma “scritta male” del rappresentante pubblico nelle aziende, fino all'intricata procedura di Transizione 5.0 e il taglio per l'automotive: il rapporto tra esecutivo e industriali è sempre più tiepido

Si può tranquillamente dire, senza timore di esagerare, che in questa fase gli imprenditori sono portati a sentirsi orfani. Mai come in questi momenti di grandi discontinuità, e di altrettanto significative incertezze sul futuro del settore manifatturiero, la politica appare loro come lontana. Domani ci sarà l’atteso tavolo di consultazione sulla legge di bilancio tra governo e associazioni imprenditoriali e la rappresentanza dell’esecutivo sarà più che nutrita con Giorgia Meloni, Giancarlo Giorgetti e Adolfo Urso mentre è annunciato anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani. E l’elenco dei presenti suona come una riprova del momento delicato e della necessità di esserci. D’altro canto il senso di solitudine degli imprenditori trova origine non esclusivamente nella manovra di fine anno (e nelle incomprensioni con il governo) ma anche in tutte le discussioni esplose sui dazi promessi da Donald Trump. Nonostante il tema abbia occupato l’agenda mediatica nei giorni immediatamente successivi alla vittoria dell’ex presidente tycoon finora agli industriali del made in Italy non è arrivata da parte del governo nessuna parola di rassicurazione. E’ evidente che si tratta di un dossier difficile e la volubilità di Trump induce ad affrontarlo con i piedi di piombo ma è anche vero che da giorni i maggiori imprenditori italiani lanciano il loro allarme sui giornali e le risposte che sono arrivate sono vicine allo zero. 

 

                         

 

Sulla manovra i pontieri sono all’opera e quindi qualche novità al tavolo di domani dovrebbe essere annunciata. Nel governo, ad esempio, non si fa mistero di considerare un errore la norma escogitata dal Mef per inserire un rappresentante dell’esecutivo nei collegi sindacali delle aziende che hanno incassato almeno 100 mila euro di incentivi. In questi casi si usa l’espressione “scritto male” per prendere le distanze da un provvedimento e così sta accadendo. Ma non si sa quale sarà l’effettiva correzione che il Mef consentirà. Potrebbe essere solo alzata la soglia degli incentivi incassati o potrebbero essere proposti altri escamotage di attenuazione del controllo governativo, per ora non si hanno notizie di una sua drastica cancellazione. Come chiede Assonime che per prima ha sollevato il caso.


Transizione 5.0 formalmente non fa parte della legge di bilancio perché è finanziata dal Pnrr. Il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, in una delle sue ultime sortite ha impietosamente quantificato in 16 i passaggi procedurali obbligatori per poter accedere ai finanziamenti. Che fine faranno? Dovrebbero essere ridotti, almeno così il ministro Urso avrebbe promesso ad Orsini ma bisogna anche ricordare che l’altra modifica che gli industriali chiedono – spostare in avanti i termini di scadenza fissati al 31 dicembre 2025 e giudicati troppo stretti – dipende dal semaforo verde di Bruxelles che vigila sugli impegni del Pnrr. Poi c’è la proposta confindustriale di introdurre l’Ires premiale che è al vaglio del Mef. Finora Giorgetti, almeno in pubblico, non ha minimamente aperto e quindi bisognerà aspettare che prenda la parola domani per sapere se si tratta di un No definitivo oppure se si può trattare nel merito delle aliquote, come Confindustria sarebbe pure disposta a fare. Altro tema caldissimo è quello che concerne il fondo Automotive, tagliato drasticamente per favorire - si dice - gli investimenti sull’industria della difesa. E anche su questa scelta non ci sono segni di ravvedimento operoso.

 

                     


Ma al di là della ricognizione minuziosa sui dossier in ballo la sensazione di solitudine degli industriali è più larga. Tra il novembre 2022 e il settembre 2024 il governo ha subito un calo di popolarità tra gli imprenditori, i dirigenti e i liberi professionisti di ben 18,5 punti. Si partiva da un 62 per cento superiore alla media e si è approdati a quota 43,5. Un dato che fornisce l’idea di un rapporto tiepido con il governo, favorito più dalla mancanza di una vera alternativa che da un vero scambio di reciproca fiducia. Racconta Nando Pagnoncelli dell’Ipsos che i segmenti dell’elettorato presso i quali il calo di popolarità è stato più consistente sono in prima battuta i ceti dirigenti poi quelli in difficoltà economica, seguiti dal Nord Est e dai lavoratori autonomi. Uno spaccato che ci autorizza a dire come le aspettative generate dalla vittoria di Giorgia Meloni in termini fiscali e di sviluppo non abbiano trovato un corrispettivo nella realtà e abbiano così generato delusione e disincanto nelle categorie economiche. Dimostrato anche dalla bassa popolarità del ministro Adolfo Urso in confronto ai suoi stessi colleghi.


Partendo da tutti questi elementi Pagnoncelli suggerisce l’immagine di un blocco imprenditoriale che non trova sponde, che vede i problemi ingigantirsi e le soluzioni avanzate dall’esecutivo rimpicciolirsi. Con la crescente sensazione tra gli imprenditori della mancanza sia una politica industriale sia una politica energetica. Da qui l’inquietudine di questi giorni e gli allarmi lanciati dai protagonisti del mondo dell’export italiano. Il senso di solitudine ovviamente si riversa nella relazione anche con i singoli partiti della coalizione di governo. E’ vero che sul provvedimento del Mef sui collegi sindacali Tajani è stato lesto nel prendere le distanze ma siamo nell’ambito degli smarcamenti tattici. Forza Italia non ha certo la stessa immagine presso la platea imprenditoriale di cui godeva ai tempi di Silvio Berlusconi. La Lega di Matteo Salvini ha perso molto terreno nei distretti e nelle tradizionali roccaforti delle Pmi, il sindacalismo di territorio è un vago ricordo del passato e forse non le giova nemmeno che sia proprio Giancarlo Giorgetti a dover indossare gli abiti del rigorista e a dover pronunciare i No più sanguinosi.


La fortuna della coalizione Meloni è che l’opposizione non abbia nemmeno la forma mentis per giocare su queste contraddizioni e allargarle. E’ vero che un eurodeputato del Nord come Giorgio Gori nei giorni scorsi ha pungolato “il senso di responsabilità” di Confindustria invitando “le categorie economiche a farsi sentire di più”. Non solo sulla manovra ma anche sulle politiche dell’immigrazione: “Volete manodopera straniera ma non siete in grado di condizionare minimamente le politiche migratorie della Meloni”. Elly Schlein però non lavora su questa lunghezza d’onda, l’impressione è che in questo novembre sia più attenta agli scioperi generali o di settore che al malcontento delle imprese e quindi non ci sia pericolo alcuno per il governo. L’altro partito d’opposizione poi è così ripiegato sui conflitti interni che probabilmente non ha nemmeno contezza della solitudine degli imprenditori e comunque pensa che non sia affar suo intervenire. Certo, in questo scenario sono dettagli ma servono, come si usa dire, a completare il quadro.