Cop29
A Baku Meloni rilancia la fusione nucleare, ma nel futuro. I dubbi sulla strategia del governo
“Non credo alle intenzioni dell'esecutivo”, è il giudizio del fisico Luca Romano, che con il progetto dell’Avvocato dell’Atomo fa divulgazione scientifica sull’energia. “Il discorso della premier conferma che l’obiettivo è sedurre l’elettorato pro nucleare senza prendersi responsabilità"
Ieri la premier Giorgia Meloni è intervenuta alla Cop29 di Baku, in Azerbaijan, dove da lunedì si è rimessa in moto la macchina della diplomazia climatica internazionale. La visita è stata breve e il messaggio chiaro: “Un approccio ideologico e non pragmatico rischia di portarci fuori strada”. Meno pragmatico è stato il passaggio sul nucleare, rilanciato come parte del mix energetico, ma solo in futuro, quando sarà disponibile la fusione. “L’impressione è che il governo stia cercando di calciare la lattina in avanti”, commenta l’Avvocato dell’atomo, alias Luca Romano.
Solo una settimana fa, con un messaggio affidato al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano durante un evento alla Farnesina, Meloni aveva detto che nel cammino verso la fusione nucleare “non sono da escludere i passaggi intermedi, come i reattori a fissione di quarta generazione”, dimostrando una generale confusione su quale tecnologia sarà quella da usare per rendere concreto il piano del centrodestra. “Non credo alle intenzioni nucleari del governo”, è il giudizio del fisico Luca Romano, che con il progetto dell’Avvocato dell’Atomo, diventato virale sui social, fa divulgazione scientifica sull’energia. “Il discorso di Meloni a Baku conferma che l’obiettivo è sedurre l’elettorato pro nucleare senza prendersi responsabilità effettive per non scontentare nessuno”.
Al summit sul clima Meloni ha detto che “dobbiamo utilizzare tutte le tecnologie a disposizione. Non solo rinnovabili, ma anche gas, biocarburanti, idrogeno, cattura della CO2 e, in futuro, il nucleare da fusione che potrebbe produrre energia pulita, sicura e illimitata”. La premier ha rivendicato il ruolo dell’Italia, “impegnata in prima linea sul nucleare da fusione”. D’altra parte, è vero che il più grande progetto di ricerca al mondo sulla fusione nucleare, il consorzio internazionale Iter, è guidato da un ingegnere italiano, Pietro Barabaschi. Mentre Eni, in parallelo, collabora con il Mit di Boston per sviluppare una tecnologia analoga che raggiunga lo stadio commerciale quanto prima. Ma è proprio il tempo il problema. “In questo momento la fusione non è una tecnologia per la produzione di energia e non lo sarà ancora per decenni. Oggi è ancora un ambito di ricerca, che forse un giorno potrà portare a una tecnologia per la produzione di energia, ma nelle migliori delle ipotesi, se va proprio tutto bene, potrà essere pronta nel 2070”, spiega Romano al Foglio.
Una tempistica del tutto inconciliabile con gli impegni sul fronte della decarbonizzazione e con il piano tracciato dal governo. Entro fine anno il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin si è impegnato a presentare una legge delega in Parlamento per definire un quadro giuridico normativo che consenta di produrre energia in Italia da fonte nucleare. A questo proposito, come anticipato dal Foglio, c’è la volontà di creare una nuova società che coinvolga Enel, Ansaldo, Cdp e Leonardo per la produzione di reattori. L’obiettivo sarebbe quello indicato nell’ultimo Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), che prevede il nucleare nel mix energetico già a partire dal 2035 fino a raggiungere una quota pari all’11 per cento del nostro fabbisogno al 2050. “Uno scenario del tutto insufficiente per un paese industrializzato con 60 milioni di abitanti e 330 TWh di consumi di elettricità”, commenta Romano, che insieme ad Azione, Radicali Italiani e alcuni comitati ha presentato una proposta di legge di iniziativa popolare a sostegno del nucleare che ha superato 70 mila firme. “Alla luce di studi e simulazioni che tengono conto anche della crescita delle rinnovabili, riteniamo che la quota di nucleare in Italia debba essere pari almeno al 30 per cento del nostro fabbisogno energetico, perché la domanda elettrica aumenterà con l’elettrificazione dell’industria, dei riscaldamenti e del parco auto”. In questo scenario la tecnologia da mettere in campo sarà decisiva per definire qual è l’ambizione del governo Meloni, che tra fusione, fissione e “nucleare di nuova generazione” fa spesso confusione.
Il ministro Pichetto Fratin ha sempre parlato di piccoli impianti modulari (SMR) da applicare in particolar modo al servizio dei distretti industriali, trovando il favore di Confindustria. Ma per Romano e gli altri promotori del referendum la sfida è più grande: “L’Italia ha bisogno di 35 GW di nucleare: non si può soddisfare questa quota solamente con i reattori di piccola taglia, ne servirebbero più di cento, che significa cento procedimenti autorizzativi, cento cantieri. Oggi la migliore tecnologia disponibile sul mercato è quella dei reattori di terza generazione avanzata di grossa taglia. Da qui bisogna partire per fare sul serio”. La beffa, insomma, per un governo che ha infranto il tabù del nucleare tornando a parlarne dopo anni, è quella di non essere preso sul serio. O peggio, di sprecare un’occasione.